A tutto Est: in Giappone

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20 mar 2021

365 dopo: moramora, sennò come?

 

Oggi, un anno fa.

Era deciso, bisognava lasciare il paese per l’emergenza covid, di cui in Madagascar si sentiva solo parlare attraverso gli echi dell’Europa. Era solo l’inizio.
C’era posto sull’aereo del 19 marzo, uno dei 4 posti rimasti sulla tratta Tana - Addis Abeba - Roma.
Il problema era smontare casa, impacchettare un anno e mezzo di cose e relazioni cercando di dare un ordine ad un affanno che era impossibile da domare. Questa era la vera difficoltà logistica ed emotiva. Così la guerra tra la corteccia prefrontale e l’amigdala incalzava.

Cominciai il viaggio di rientro il 17 marzo, quando acquistai il biglietto e lo finii oggi 20 marzo, quando misi piede a Roma.

Durante il tragitto si andava concretizzando man mano l’idea del pericolo della pandemia. Più si volava, più mi accorgevo dei volti tesi e spaesati. In aeroporto avevo incontrato gli ultimi turisti europei e americani rimasti in Madagascar per staccare dal disastro già iniziato a ovest. Qualcuno ci era venuto apposta.

In fila al check in davanti a me ricordo le 2 peace corp che lavoravano a sud dell’isola, uno dei sud più dimenticati del mondo. A loro era stato ordinato dal quartier generale di partire. Le due americane erano spaesate, piangevano per motivi che a Ivato sono normali e frequenti: la valigia troppo pesante, la calca delle persone al desk... Riuscivano solo a dire che sarebbe stato meglio rimanere in the middle of no where.
Quello sguardo di stupore e paura, a un anno di distanza lo ritrovo ancora oggi sui canali TV, sui social,  per strada…

Io aspettavo paziente il mio turno nella calca e nell’ansia di tutti di questa fuga improvvisa, anche della mia. Il grosso era fatto: avevo inscatolato 15 pacchi, distribuito roba e salutato Fanja, Florence, Roland, Tahina, Bazou, Ravaka, Dimby, Aristide, Vohang i colleghi e avevo fatto "ciao ciao" alla città dal finestrino dal pickup una volta arrivata in aeroporto con Nono. Ora si trattava di raggiungere il controllo passporti per l’ultimo "Je vous souhaite un bon voyage, Monsieur". Dovevo stare talmente concentrata e capire quale fila seguire, che non riuscivo a sentire la sofferenza del distacco da tutto quello che lasciavo. 
A un anno di distanza, quella sensazione di gestione del distacco la ritrovo, necessaria incombente, seppur sotto altre forme. E’ come se oggi non ci si possa permettere di avere la stessa paura di prima, la paura di una “fila che spinge”, ma dobbiamo capire come stare in fila senza che questa ci mangi.

A volte sorridevo a chi spingeva, con la mia solita strategia di rispondere ad un approccio aggressivo con uno volto alla complicità. Era la prima volta in cui mi accorsi di cosa volesse dire escludere le espressioni facciali dalla comunicazione, a causa della mascherina. 
Dopo un anno forse stiamo capendo che, accettare quella che giudichiamo follia altrui, ci farebbe vivere meglio (per poi capire che follia non è, ma diversità). Inoltre, dopo un anno di chirurgiche alla bocca adesso penso liberamente ad alta voce, tutte le volte che mi viene. Sarà bello vedere cosa succederà quando  toglieremo la mascherina. Potrei andare in giro con un registratore.

Ho fatto il viaggio accanto ad un tipo di Torino. Tra me e lui c’era un posto vuoto. Ci siamo parlati guardando davanti a noi per evitare di infettarci, lui veniva dal Kenya. Non sapevamo nulla di come comportarsi, ad esempio io avevo la mascherina sbagliata (quella con la valvola). A Roma ha sorvegliato i miei bagagli mentre prenotavo la macchina a noleggio per andare a Pisa e ci siamo detti buona fortuna. Un incontro come molti altri fatti nei lunghi voli: qualcuno di cui non sai il nome o lo dimentichi e di cui resterà un ricordo piacevole (o spiacevole). Questo non cambierà mai negli anni, credo. Basta avere pazienza.

A Roma c’era del nervosismo locale “te devi allontanà!” L’autostrada era vuota. Viaggiavo coi guanti e i disinfettanti a portata di mano, come mi avevano detto.
E più mi avvicinavo a casa e più pensavo al fatto che avevo fatto bene a lasciare alcuni pacchi in ufficio con alcuni effetti personali e il materiale per la camera oscura, vedi mai un giorno dovessi ritornare.
A 365 giorni di distanza mi dicono che quei pacchi sono ancora lì ad aspettarmi “Moramora, Danielà”.
A un anno di distanza ho capito finalmente la necessità del moramora.




Gli scatti sono stati realizzati con Nikon FM2 e Yashika Mat 124

8 feb 2019

La boite à idee

Oggi, un anno fa, mancavano poche ore a preparare il ritorno di Tsaramaso in patria. 
Oggi, un anno fa, eravamo tutti insieme a festeggiare i 70 di zia con le candeline immaginarie. 
Oggi, un anno fa, prendevo il mio treno forse con poche speranze, ma mai con nessuna e me ne andavo a Roma, ché il giorno dopo al mattino avrei dovuto fare una cosa importante al Ministero degli Affari Esteri. 
Oggi, un anno fa, cercavo di raccontarlo a tavola nella stanza delle parole, ma nessuno mi ascoltava davvero; come spesso accade quando si ha poco tempo e ognuno ha il suo pensiero, il suo stato d’animo e le aspettative che si creano e si distruggono in un tempo così veloce, che manco lasciano l’amaro in bocca.
Così poi, fatto quel viale, ce ne andavamo a prendere i treni e le macchine per separarci di nuovo. Auguri zia. Sicuramente ci vedremo tra un bel po’. Resto poco a Roma.
Ma è quel poco che basta per farmi cambiare animo e idea.
Quel poco che è enorme e che arriva dritto davanti all’altare della Patria con una telefonata. 
E poi le gioie, l’abbraccio e tutto il tempo delle telefonate durante l’aperitivo in un posto di architetti a condividere quell’incredulità e quella felicità. Le aspettative stavolta sono enormi e i piedi non devono necessariamente stare più così per terra, almeno per un po’.
Il click di quella notizia apriva le porte della speranza e dell'Air France, che faceva rotolare un fagiolo da nord a sud in un lungo viaggio durato 9 mesi.

19 Novembre 2018, Antananarivo. Sono atterrata e fa caldo. Scendo le scale dell'aereo e fiera, guardo l’anello comprato nella via dei gioielli l’ultima volta qui, nel 2016, quando non ci sarebbe stato più motivo di tornare. Sapendo invece che lo avrei fatto prima o poi.


Lo so che non ci state capendo nulla, ma è necessario tutto questo a Tsaramaso per ripartire.

Partirò allora da una delle sorprese che questa terra regala giornalmente.
L'ho trovata in quello che uso per cambiarmi per l'allenamento di aikido e che il sensei chiama il vestiaire. Il vestiaire è una stanza all'aperto con una tenda "a mezza gamba", che lascia spazio all’immaginazione di chi passa di lì per andare nel pollaio accanto o al bagno di fronte. Ma io faccio veloce e nessuno mi vede. Una volta pronta faccio per voltarmi e la vedo e penso che chi l’ha creata (il sensei presumibilmente) sia un genio.

Vorrei aprirla, ma non mi azzardo.

Allora è Tsaramaso che da oggi riapre le comunicazioni, ora che è tornato laddove è nato: dalla terra al sacco del mercato.

Miandriarivo - al dojo

28 mag 2016

Giuliano De Donno ci ha lasciato il segno


E’ notte e ed è Africa. Il cellulare italiano squilla, il telefono è in fondo a una tasca dello zaino. Quando arrivo a prenderlo ha già smesso. E’ la mia amica Monica, una di quelle amiche che rivedi dopo mesi ed è come se fosse il giorno prima. Un filo continuo.

Mi dice che suo padre non c’è più. Resto di ghiaccio. Esploro tutte le possibilità, quelle che di notte amplificano il dolore. 

Giuliano ha deciso di farla finita, proprio lui: il Dr Giuliano De Donno, che a Brindisi tutti conosciamo per la sua professionalità e umanità di Medico, adesso in pensione tuttavia volontario presso il suo ospedale di sempre. 
Per me è quel Giuliano che ho conosciuto attraverso le sue figlie, nel tempo trascorso all'università in via di Gello a Pisa, tra ansie di esami, pranzi e fughe fuori porta. Giuliano per me è quell'uomo con le gote rosse, il perenne sorriso e l’accento marcatamente brindisino; quello che tra gli scogli della sua Santa Sabina, quando gli raccontai della mia prima (vera) crisi d’amore, mi disse: “peggio per lui, lascia stare, non sarà la prima volta e adesso fatti il bagno”. 
Nei miei schemi mentali Giuliano era uno che amava la vita, ma se ha deciso di chiuderla forse perché amava di più quella degli altri. 
Per forza deve esserci stata un buon motivo, vero Giuliano?

E’ buffo. E' la prima volta che ti chiamo per nome e ti do del tu. 
Mi prendo questa libertà. 
Come hai fatto tu, scegliendo di volare.
Addio Uomo, Padre e Medico.
E' tremendo. Sei tu che hai lasciato il segno stavolta. Tu che i segni sulla pelle delle persone li toglievi con maestria .
Tocca a noi adesso ricucire con cura.
Ce la metteremo tutta. Promesso.
Intanto eccoti i segni di questo cielo africano.
Buon riposo.
D.

"SEGNI NEL CIELO AFRICANO" Toamasina - Madagascar 2016


30 gen 2013

Parents

Non ho resistito e gliel'ho chiesto:
Tsi mafana zazakely?
e m'ha detto (più o meno):
Tsi mafana! Mangatsiaka be!

be...? non direi, ci sono 28 gradi...





MERE
2012

Fujica STX1 - solaris color 100 expired

24 lug 2012

Migrazioni



Holga 120CN

La prima volta che ho parlato di Mahajanga ho commesso un errore. Era qui ed era il 2009, a quel tempo a Nord del Madagascar non c’ero mai stata. Avevo vissuto nel Sud, nella regione dell’Androy e avevo un po’ di esperienza di Anosy (Fort Dauphin). Il malgascio è una lingua molto "logica", infatti, se la Regione si chiama Androy, il popolo si chiama Antandroy e la lingua Tandroy. Se la Regione è l’Anosy, il popolo si chiama Antanosy e la lingua Tanosy.
Questione di prime lettere.
Rimasi molto colpita dalla città coloniale coi palazzi in decadenza, ma la più grande novità era la presenza dei pousse-pousse: carretti colorati guidati da uomini magrissimi e scalzi che corrono da una parte all’altra della città tra pietre e rifiuti per trasportare spesso donne dal peso “inquantificabile” e cariche di spesa. 
Nel 2009, senza chiedere a nessuno, avevo dedotto che i pousse-poussier appartenessero alla classe povera e dichiarai che MAI sarei salita su un pousse-pousse. Troppo forte l’idea dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Molti mi dicevano che era comunque un lavoro, ma quello non è mai stato un buon motivo per me per pagare un uomo per farmi da taxi umano.

Quest’anno, ogni mattina, mentre fumavo la prima good look della giornata, un pousse-poussier cercava di convincermi a fare il tour della città. Io gli dicevo che dovevo andare a lavorare e che preferivo camminare, ma lui, ogni santo giorno, provava a convincermi dicendomi di approfittare “c’est le quatre-quatre malgache!”.
Un giorno mi ci sono messa a parlare e così l’ho guardato bene in faccia. C’era qualcosa di familiare nei suoi tratti. E’ così che ho scoperto che era un Antandroy, non solo, che tutti i pousse-poussier venivano dall’Androy e che il pousse-pousse era la loro casa (cioè ci dormono!) E anche tutte le donne che vendono la frutta sul ciglio della strada e si spalmano la terra in faccia erano Antandroy! Quindi mi correggo, la classe povera del nord a Mahajanga è fatta dal popolo del sud, migrato in cerca di lavoro.

Tutto questo ha stimolato ancora di più la mia passione: viversi un paese attraverso la gente. Allora nelle pause di lavoro, coi pousse-poussier e le venditrici di frutta ci parlavo. Molti di loro non ricordano neanche cosa fosse l’Androy, a volte hanno chiesto a me come se la passavano laggiù, in quel posto in cui per arrivarci ci vogliono 1 ora e 30 di aereo oppure 8 comodi giorni di taxi-brousse.
Fujica
Fujica
Fujica

Avrei preferito mango, papaya, banana, ma LEI aveva solo arance. Ne ho comprato 2 chili, poi le ho chiesto in cambio se potevo farle una foto.
Il sapore di quelle arance non l’ho mai sentito. Sono finite alla donna sfuocata, seduta dietro a godersi tutta la scena.

24 giu 2012

Buon compleanno C.

Cara Cbp,
Ti scrivo dall'altra parte del mondo, come sai.
Se mi cerchi, sappi che mi sono mossa un po' più a ovest. Ho sorvolato l’oceano e sono atterrata a Moroni, la capitale delle Gran Comore.
Lasciare il Madagascar non è mai facile: ci lascio sempre delle briciole di me, per poter ritrovare la strada un giorno. Lì è sempre tutto più complesso, difficile, precario o, come diresti tu, "ingarbugliato" e non sai mai come e se ci puoi tornare. Mi sono lasciata alle spalle la porta dell’imbarco, ho sentito il solito odore di benzina e asfalto, ho sorriso guardando il cielo scuro e ho detto "veloma Madagasikara” (dovresti ricordarti che addio si dice veloma). Poi ho salito il primo scalino dell’aereo, poi un altro, poi un altro e così ho capito che anche stavolta era finita.Una piccola stretta al cuore e mi sono seduta da sola nel piccolissimo aereo a elica che mi avrebbe portato a Moroni.

Ti scrivo da qui, proprio dov'ero un anno fa e proprio dove ti ho portato in giro per un giorno intero con me senza esserci, ma sono certa che hai sentito.
Ti ho portato subito al vecchio porto, dove c’è la grande moschea e la grande nave di ruggine che si sta lentamente sbriciolando. "Sentito? Pare sia in vendita adesso, il padrone è morto quest’inverno…ma chi vuoi che se lo compri questo ammasso di ruggine?"
Ci saresti salita, ma ti ho trattenuto. Hai fatto la faccia di quando guardi la TV con la bocca spalancata e le lacrime che scendono. Le cose grandi sono sempre più grandi per te. Ad un certo punto abbiamo visto quell’uomo magro che si sbracciava, ci diceva “salam aleikum”, abbiamo risposto “aleikum salam”, sventolava una foto, ma era in alto e non capivamo.
Ci ha urlato che in quella foto c’era lui davanti alla stessa nave prima che fosse mangiata dalla ruggine. Era così fiero di essere lì in alto e nella foto e ci ha chiesto se volevamo che ce la lanciasse, abbiamo subito gridato "nooooooooooo" era chiaro che sarebbe caduta in acqua!!!! E così finalmente hai smesso di piangere e hai fatto una delle tue risate esplosive che hanno fatto eco per tutto il porto fino al Karthalà, il vulcano.

Abbiamo lasciato il porto con la bassa marea, "hai visto quel faro?" Hai annuito. Ti ho detto che è il primo faro della città, risale al 1850. Ci siamo paralizzate quando abbiamo scoperto che stanno costruendo degli appartamenti per i turisti proprio lì davanti, non lo toglieranno mica?
Inshallah.

Ti ho portato lungo le due uniche vere strade di Moroni, e sono riuscita a perdermi anche lì. Chissà se te ne sei accorta. Hai visto quanta monnezza? Ti assicuro che quest’anno non è niente. E guarda come puliscono! Ma che succede? Chi arriva?? Mi hai preso per il culo dicendomi che sapevano che sarei arrivata io e invece, scema, il 9 c’è la festa dell’indipendenza e poi iniziano i giochi della gioventù dell’oceano indiano! Altroché me.
Abbiamo mangiato da Nassib. Nassib, sì, quello che fa il pane e i dolci e all’alba tutta moroni è profumata durante il richiamo del muezzin, poi di giorno fa il pilau e le omelette più buone della città. Avevamo i soldi contati, è domenica e le banche sono chiuse, ma Nassib fa prezzi onesti per essere qui. Visto com’è caro tutto? E la gente così povera? "E sti ricchi dove sono?" Mi hai chiesto. "Non si vedono, io non ne ho mai visti", ti ho risposto. 
"Però guarda lì, c’è una partita di calcio e combinazione il Moroni gioca contro il Madagascar. Io sto per il Madagascar sempre!
"Io sto per lei", mi hai detto indicandomi quella ragazza bellissima col suo velo colorato in mezzo a tutti quei maschiacci tra il pubblico. Ma come hai fatto a vederla?
 
Che sete però, qui è proprio più umido.
E le capre stanno sotto le panche come il proverbio che tanto sbagli. E infatti hai detto che sopra la panca la capra canta…











 

Eri felice e io pure quando, finalmente, ti ho sussurato "buon compleanno, amica mia".