A tutto Est: in Giappone

27 dic 2021

Kabo in pillole


Alcuni amici che si definiscono vintage e/o antisocial mi hanno chiesto di condividere anche qui le "pillole" che di tanto in tanto scrivo sui social (facebook e IG). Obbedisco con piacere.
Qui di seguito ci sono i tre momenti che ho fotografato con immagini e testo durante alcune delle missioni a Kabo, che è il villaggio a 3 ore da Ouesso, andando verso nord. 
A Kabo ci vado almeno una volta al mese per le attività di campo. Kabo è quella che chiamo "la routine". Mi alzo, faccio colazione, attraverso la strada e sono in ufficio, che è su una palafitta e per questo lo chiamano Madagascar. A volte prendiamo la macchina e andiamo nei siti di foresta oppure con la piroga a motore andiamo dalle comunità di pescatori e di cacciatori. Spesso per il pranzo non c'è tempo. A fine giornata Mme Benj prepara la cena nel suo ristoro al villaggio e poi rientro a casa a piedi, stando attenta agli elefanti.
Dico "Buonanotte" al guardiano che si siede accanto al piccolo aereo che non vola e l'indomani si ricomincia.
A Kabo accadono piccole cose.
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13 Settembre 2021

A Kabo dopo la pioggia.

Il tappeto verde, il fiume Sangha e il Camerun
Kabo è fatta di grandi spazi verdi da una parte e di case di legno dall'altra, che poi sarebbe il villaggio. Io preferisco il villaggio, anche se riconosco che l'ampio spazio offre un gran respiro. Ci passo ogni giorno per andare a lavoro e mi chiedo come mai l'erba venga tosata ogni giorno. Perché? Per chi? Non c'è nessuno che sembra averne bisogno. Ci sono gli ex hangar, non ci sono le ville dei ricchi, è una zona di passaggio delle poche 4x4 dei lavoratori di qui che partono per gli altri siti. È un tappeto che arriva fino alla foresta, da una parte e al fiume, dall'altra.


Oggi al tramonto c'era un gruppo di ragazzi che giocava a calcio: i "senza maglia" contro "i con maglia". Volevano le foto e gliel'ho fatte.







l'antenna di MTN: la compagnia telefonica

Poi accanto al campo c'era questa grande pozzanghera che rifletteva l'antenna di MTN stagliata nel cielo. Quell'acqua che la sera, se non c'è la luna, sono cavoli e ci entri in pieno e poi sei rosso di argilla per giorni.








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20 Novembre 2021

A Kabo dopo 1500km in 5 giorni nel nord del Congo.

Ero uscita per prendere qualcosa da mangiare al negozietto dietro l'angolo, quello che sta dopo la grande antenna di MTN.
L'uomo del negozio mi saluta chiamandomi mundelé, che vuol dire straniera. 
E ancora quando ha finito di servirmi mi chiede se voglio altro: "C'est bon mundelé?". 
E quando me ne vado: "Bonne nuit, mundelé".
Quando esco...SBAM mi scontro con una luna piena e rossa che sale dal quartiere dei Bakaa, gli autoctoni. Subito faccio dietro front e torno al negozio:
"Papa, on fait comme ça" - gli dico, usando una tipica espressione congolese che preannuncia una dichiarazione.
"On fait comment, maman?" - mi dice.
Facciamo che mi chiamo Daniela "pas seulement mundelé", gli dico.
"Ah merci, maman Danielà" - mi dice come tipicamente il congolese fa, ringraziandoti per il solo fatto di avergli parlato (ad esempio se gli dici :"Bojour Monsieur" lui ti risponde: "Merci, Madame").
"Et vous, papa? Comment vous appellez-vous?"
"Jean Chris, maman".
"D'accord. A demain, papa".
"Merci, maman. A demain. On est ensemble" rassicurandomi con l'immancabile "siamo insieme" con cui qui ci si congeda. 
Rigiro l'angolo e ancora SBAM su questa luna.



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3 Dicembre 2021

Sono tornata a Kabo.

Qui abito in una casa di legno, che è quella del pilota che non ha mai volato. Penso a Saint Exupéry quando vedo il piccolo aereo fermo nell'hangar.
Stasera in cielo accadeva questo spettacolo. Avevamo appena finito di mangiare al ristorante di Mme Benj, che si chiama così perché è la moglie di Benj.
Da Mme Benj si mangia fuori, meglio se ti sei portato la lampada frontale, cosi vedi cosa hai nel piatto. Comunque è facile: è pesce del fiume e manioca dei campi, quella portata dalla città, che qui i campi li distrugge l'elefante e la manioca non ce la fa a crescere.
Il giorno successivo Mme Benj cambia specie, ma è di nuovo manioca e pesce del fiume e così anche il giorno seguente.
Quando il pesce fresco non arriva, allora è pesce affumicato in salsa di arachidi e foglie di manioca, si chiama koko. Invece il pesce cucinato fresco si chiama bouillon, una sorta di guazzetto in salsa di pomodoro, cipolla e qualche erba, il tutto cotto nelle foglie di banano.
È proprio buono. Soprattutto se non hai pranzato, te lo divori. La palla è la quantità di spine che devi togliere, sputacchiare e a volte ingoiare per necessità. Secondo me il pesce di fiume ha più spine del pesce di mare. La manioca te la danno in baton e in effetti sembra un piccolo bastone. Oppure arriva come foufou che è tipo una polenta, ma qui a Kabo è raro il foufou, perché la macchina per macinare la manioca e fare la farina ce l'ha solo una famiglia.
Stasera dopo il pesce e il baton, alle mie spalle, dietro al grande mango, il cielo esplodeva così e non erano fuochi d'artificio. 
Come ha detto il Coordò, "In Camerun piove. Dobbiamo affrettarci, che arriva presto anche qui".
Siamo partiti.
Dopo poco è arrivata la pioggia dall'altra sponda del fiume, che poi è il Camerun.




6 nov 2021

"Rifrazioni di istanti" personale di fotografia di Michele Lischi: ci siamo!

Momenti nella casa-laboratorio

Oggi nella sede dell’Associazione Imago, in via coccapani à Pisa, Michele Lischi farà la sua personale di fotografia.

Ci mostrerà le sue “rifrazioni di istanti”. Tra le migliaia di foto che occupano i suoi archivi questa ricerca sembra davvero interessante. Lo “spezzato” e il “ricomposto” di quella bellezza che Michele è capace di cogliere nelle sue molteplici sessioni di fotografia con amici, parenti, conoscenti e chiunque stimoli il suo atto creativo.
Atto creativo che si svolge spesso tra le mura di casa, dove lo vedo comporre come fosse un musicista ma anche uno scienziato rigoroso nel suo laboratorio che rispetta la regola e sa anche romperla.

Al mattino, quando appena svegli il senso dell’odore è più attivo, spesso sale dalle scale del seminterrato un lieve odore di chimico degli acidi per sviluppo e stampa. Se non lo trovi, è lì nei bassifondi. A questo odore a volte si somma quello della malvasia dolce di bottiglie esplose nella cantina accanto alla camera oscura. Ed è questo mix di odori che rende la produzione di Michele ancora più viva e presente in ogni momento della sua vita, da quando lo conosco.

Credo che sarà una bella mostra. Credo che valga veramente la pena andare a vedere come ha messo insieme i pezzi di foto e persone, di storie e stati d’animo diversi, in una reciprocità tra fotografo e fotografato intima e artisticamente onesta.

Certo, sono di parte, è il mio compagno da venti anni. Ma mi sa che avrei pensato la stessa cosa anche se avesse avuto un altro ruolo nella mia vita.

Buona mostra, Michele e a tutti voi che potrete esserci!

La guarderò a distanza, sempre facendo ricorso a quell'immaginazione...

Piccolo spoiler durante l'allestimento con chi lo ha aiutato:
 l'artista David Paolinetti e l'amica Chiara Caccamo


27 ott 2021

Immaginare, pas de soucis!

Ottobre 2021, Ouesso

la maison d'art di Ouesso

Lui è Alban, davanti alla sua "maison d'art", che si trova sulla strada per il mercato di Ouesso. 
E' sabato, sono in taxi e ho chiesto al tassista di farmi scendere, la maison è finalmente aperta. Alban lo trovo sotto l’albero a dipingere. Mi presento e lui fa gli onori di casa. Mi mostra i suoi quadri, sono per lo più scene di vita quotidiana; Manuel invece, dipinge gli animali. Manuel non c'è, vive a Pokola, al di là del fiume. 
Tra i vari quadri che Alban mi mostra ce n'è uno con due zebre. Vede la mia espressione e mi anticipa dicendo “anche se qui in Congo le zebre non ci sono”. 
Quando ho chiesto ad Alban quale fosse il simbolo del Congo, lui ha inteso quale animale-simbolo e mi ha detto "les elefantes, maman", anzi "due elefanti con in mezzo un leone" e ha aggiunto "anche se il leone non esiste in Congo. Mais ça suffit d'imaginer, maman". 

Basta immaginarseli.

Anche sul tetto dell'is'art Galerie di Antananarivo c'era un elefante in cartapesta. E chi l'aveva costruito mi aveva detto una cosa simile "L'ho fatto per dare la possibilità di fare vedere ciò che altrimenti qui possiamo solo immaginare, tsy maninona”, cioè non fa niente, pas de soucis, non ci sono problemi

E' quello di cui ho quotidianamente bisogno qui, immaginare senza farmi problemi.

L'elefante dell'is'art galerie di Antananarivo
Immaginare ciò che non è, rispetto a quello che per me sarebbe. Mi riferisco a tutte le volte che qui spalanco la bocca e mi stupisco davanti a qualcosa che non avrei mai pensato potesse accadere, secondo quello che io intendo per logica.

Con Alban parliamo di cosa faccio io e di cosa fa lui. Mi chiede se disegno, gli dico che sono negata, ma mi piace la fotografia. Gli mostro la FM2 e dice che non l'aveva mai vista una macchina così. Gli dico che mi piacerebbe fotografare la gente di Ouesso per esplorarne l'identità, la quale sembra essere nascosta o confusa. Non so bene come, ma vorrei che ci fossero i commercianti mauritani, beninesi e centroafricani; gli agricoltori camerunensi, i congolesi di Kinshasa che costruiscono le piroghe, i congolesi di Brazzaville, di Ouesso e gli autoctoni e poi anche noi 7 expat presenti in questa città cosmopolita.

Alban mi conferma quello che sapevo: qui farsi fotografare è complicato, le persone sono scettiche e resistenti. Addirittura Coordò mi dice che ci vuole un permesso della prefettura.
In passato in alcuni paesi si sono rifiutati di farsi fotografare, perché è come togliergli l’anima. E davanti a questa affermazione era difficile replicare. Anche qui ne hanno una da non sottovalutare: se li fotografi poi te ne vai a casa tua, stampi un libro e ci fai i soldi sulle loro immagini. Io la replica ce l’avrei e cioè che le foto sono loro, resteranno alla città e faremo una mostra qui.

Alban mi dice che qui la gente non è abituata alla fotografia come forma d’arte, si fanno le foto a Natale e ai compleanni e per i documenti. L'arte non si spiega, dice, ma il progetto posso spiegarlo e mi da' qualche speranza che la gente possa poi partecipare. Patecipare, è proprio la parola giusta.
Alla fine Alban si propone di aiutarmi a parlare con le persone, mi dice che questo è uno dei compiti dell’artista: far conoscere quello che non si conosce.
Alban quando ascolta sorride con la testa china da un lato. 
Inizio a sentire che questa città ha qualcosa da dire. Bisogna cercare, avere pazienza e non smettere di immaginare.
Così, io e Alban ci diamo appuntamento a sabato prossimo, vuole cominciare dagli autoctoni. Mi fido. 
Lui torna al suo albero a dipingere le scene di vita quotidiana e io mi ci butto dentro, per le vie dei mercati.

La lista della spesa oggi è fatta di materiale per la casa; passo tra le montagne di secchi di plastica colorata e le marmittes di tutte le dimensioni, impilate una sull’altra. La maman è seduta sul bancone e mi dice che oggi ci sono i saldi sulle sedie in plastica.

Per la cronaca, qui se sei donna sei maman, se sei uomo sei papa

Non ho bisogno di sedie, ma di 3 bacinelle rettangolari per la camera oscura, ma niente, a Ouesso ci sono solo bacinelle rotonde. Proseguo e mi fermo da due donne che vendono cosmetici e mutande.
Neanche loro sono di Ouesso, arrivano dalla capitale. Una è quasi addormentata sui cartoni di roba da vendere, l'altra appende i teli per coprire i prodotti dal sole delle 11 del mattino.
Questa sarebbe una foto bellissima. 
La donna stesa si chiama Regine "mais sans royaume, maman" aggiunge. Dice che si annoia perché la gente non compra. Nel mettere a posto il resto dei soldi, tiro fuori la macchina fotografica. Lo faccio apposta, ovviamente. Anche lei mi dice che i congolesi non amano le foto "andate via con le nostre immagini". Le parlo dei ritratti che vorrei fare e le chiedo cosa ne pensa. Dice che sarebbe meglio un film allora, con della bella musica. Parliamo di musica, di tamtam, di rumba (il ballo tradizionale che ha un legame con Cuba). Ci diamo il numero di telefono, vuole sapere come andrà col mio progetto fotografico. Alla fine del grande sorriso che ci scambiamo le chiedo se possiamo scattare una foto e lei mi dice che non è pronta. Magari la prossima volta.

Alla prima traversa accanto al supermercato con la grande scritta CocaCola c’è la donna dei pagne. Li chiamano così, i grandi teli africani davanti ai quali mi fermo ogni volta, catturata da quella immensità di colori. Ovviamente neanche questi non sono prodotti qui, però la gente li veste e i mille sarti che ci sono ad ogni angolo usano questi tessuti per cucire vestiti bellissimi per uomini e donne. La maman ha già capito che comprerò. Anche lei è seduta sui prodotti che vende. Si ricorda di me e dell’ultima volta che ho comprato e mi fa lo stesso prezzo. Mi gira la testa quando mi fa entrare a guardare la montagna di pagne che ha. Cerco qualcosa col rosso ed esco con una fantasia turchese e un’altra arancione. La novità adesso sono i "deux temps", ossia 2 pezzi venduti insieme che puoi separare e vestirli quindi in “due momenti” differenti. 
Le sintesi geniali di questi paesi. 
La maman la foto se la fa fare senza esitazione, mantiene la mascherina sotto al mento, si mette sullo sfondo dei suoi pagne appesi alla porta. La foto è in bianco e nero.
Tutto questo dura circa due ore e ho fatto in tutto 3 scatti.

Alla fine passo da Salem II, che ho deciso essere il più simpatico dei 3 Salem. Mi regala ogni volta le holliwood e dice ad alta voce i prezzi di quello che compro mentre imbusta. La trovo una forma di rispetto in mancanza di registratore di cassa e di qualunque altra prova di pagamento. Salem i numeri li dice a bassa voce in arabo, quando batte sulla calcolatrice e li comunica in francese al cliente. Chiederò anche a Salem uno scatto, naturalmente.

Quando ripasso davanti alla maison d’art la trovo chiusa. Sono le 14 e Alain sarà andato a mangiare. Devo correre a casa perché ho il carpentiere che mi aspetta per sistemare i mobili della mia stanza, che non è ancora terminata. Nonostante lo sforzo immaginativo non ho ancora finito di riadattare tutto quello che avevo chiesto e che è arrivato in forma diversa: ripiani più larghi del muro, scaffali più alti del soffitto...
Adesso però col nuovo carpentiere Myr stiamo tagliando e adattando. Myr mi ha voluto fare una zed per i libri. Myr non usa il trapano, ma batte col martello talmente forte che parte la scintilla sul chiodo. Myr non avrà 30 anni e non peserà più di 70 kg. Myr s’impegna, è puntuale e quando arriva mi scrive un sms: "sono arrivato, sono seduto col guardiano" che appunto non lo fa entrare in casa se prima non ha verificato che io non sia occupata. Peccato che a volte il guardiano interpreta male e lascia Myr 40 minuti ad aspettare. Myr ogni volta mi porta un piccolo dono: una noce di cocco, una cabossa (frutto del cacao), le banane plantaines (quelle che si friggono) e ogni volta mi chiede se conosco quello che mi sta offrendo. L’altro giorno gli ho offerto io il caffè italiano e ce lo siamo preso seduti sul divano di vimini, con la curiosità del guardiano che ci guardava in questa configurazione inusuale: la maman con l'operaio.
Mentre prediamo il caffè, condivido con Myr alcuni dubbi su come comportarmi in alcune situazioni qui. Tipo quando le persone non ti avvisano se c’è un problema, anche se ogni frase si conclude con "pas de soucis, maman". Tipo quando le persone non vengono dove abbiamo concordato e tu aspetti e poi qualcuno compare con tuttta calma e non proferisce parola. Tipo quando nessuno viene perché piove (e qui piove 8 mesi su 12). Chiedo per capire come incastrarmi in questo concetto di tempo diverso e soprattutto in questo gioco del silenzio. 

Myr ascolta, tace, beve il caffè nella mia tazza preferita, quella color foresta e poi dice qualcosa, ma non lo capisco. E' come se anche lui stesse riflettendo insieme a me. Gli dico che non ho capito e lui mi dice che qui nessuno è di qui, quindi in sostanza, perché spiegare, dire, cambiare? Mi dice che Ouesso è una città di nessuno e di cui nessuno si appropria. Eccola quindi, la città di passaggio, cosmopolita, che non appartiene a nessuno, è Myr che me lo spiega. 
Così anche io devo premere reset e rivedere le aspettative e le logiche. 
Myr vede il kekogi di aikido appeso allo stendino e mi chiede se faccio karate. No, aikido, ma adesso andiamo a lavorare mentre ti racconto.
la "zed" rivisitata
Myr finisce di montare gli scaffali. Fa scattare un paio di scintille sui chiodi e a lavoro finito mi chiede se mi piace la zed che mi ha costruito. Vorrei dirgli che la zeta non è fatta così, ma abbiamo parlato finora di immaginazione... 
Fa per pulirsi i pantaloni dalla polvere, solo che sulle ginocchia non ha alcun tessuto. Myr veste coi  jeans strappati come i giovani trendy di Ouesso coi cappellini portati con la visiera dietro, il giubbino tarocco di Dior - non importa se ci sono 35 gradi - e le mutande che escono dalla vita bassa.
Ci diamo appuntamento a lunedi per terminare con il mobile del bagno.

Dopo un’ora ricevo un messaggio. E’ Myr che mi invita a fare jogging domenica mattina lungo il fiume Ngoko. Dico ok.
L'appuntamento è alle 6:30 del mattino, davanti al poste de police.
Accetto, perché se mi immagino lì, so che poi mi piacerà.



8 set 2021

A nord, ma anche a sud.

Una strana cosa.

Prima ancora di arrivare qui, apprendo dal mio coordinatore che si avvicina la stagione umida, dovremo quindi proseguire con gli studi iniziati in stagione secca. Ci stiamo chiedendo quale sia la correlazione tra il consumo di carne selvatica e variabili come il livello di accesso alla risorsa in termini di costo e disponibilità, oppure quanto il consumo sia legato alle tradizioni locali, al potere nutritivo di questa carne etc. Tutto ciò potrebbe subire un cambiamento significativo tra una stagione e un'altra, motivo per il quale vanno esplorate entrambe.

In previsione delle piogge, nella valigia ci sono K-way, sacchetti stagni, pantaloni antipioggia, mantelle...

Arrivata a Brazzaville trovo un cielo bianco coperto di nuvole e un’arietta fredda, che la sera costringe a mettere le maniche lunghe, benché di cotone.
Quando incontro il Direttore mi dice che sono fortunata perché questo è il momento migliore per visitare Brazzaville visto che, finalmente, è iniziata la stagione secca.
 
Ah! 
Entro un po’ in confusione, ma proseguo.

Quando arrivo a Ouesso il cielo resta bianco per tutto il percorso di 800 Km, l’umidità è a livelli altissimi e le temperature intorno ai 30 gradi. Poi piove. Ma piove-piove. Quella pioggia che dura ore, incessante e che bagna ogni volta i cuscini dei divanetti in vimini nella veranda della "casa con le colonne". Quella pioggia che ti fa sporcare e giocare, che ti fa cambiare strada e idea, chiudere i mercati, togliere i letti di legno dei carpentieri esposti davanti ai loro laboratori, la pioggia che allaga le grandi strade, anche se vedo senza troppi danni - pare infatti che abbiano da poco pulito gli scoli, per via del passaggio di qualche ministro.
 
Il primo giorno in ufficio lo passo col coordinatore. Dal video me lo aspettavo più piccolo di statura e mingherlino, invece è alto con le dita delle mani affusolate e gli occhi nerissimi. Restiamo qualche secondo in silenzio, entrambi con la mascherina, ma si vede che sotto c'è un sorriso. Non so se stringergli la mano, toccargli il gomito (abbracciarlo non se ne parla) o non fare niente e rimanere giusto impalata e vedere che fa lui. Lui porta avanti il suo pugno e capisco che potrò fare la stessa cosa pure io, arrivando a toccarci le dita. 
Nel suo ufficio ci sono 20 gradi, fuori 30, ma non posso fare subito la rompiballe con la mia intolleranza all'aria condizionata. Per fortuna usciamo presto da quella stanza per andare nel mio ufficio. Anche lì c’è un altro condizionatore, che poi è l’unica presenza oltre alla scrivania di legno tinta di giallo, che riprende - mi dice con soddisfazione il coordinatore - i colori del logo del nostro progetto. Per ora rimbomba tutto e c’è una luce a neon e presto arriverà una libreria. Torniamo nel suo ufficio. 
Comincia il briefing. In realtà saltiamo da un discorso all’altro toccando anche l’argomento lavoro, ma in maniera sciolta e confusionaria. Parla con molta calma e serenità. Ho l’impressione che sappia tutto del nord del Congo, pur essendo originario del sud del paese. Lo chiamano Doc, perché ha un dottorato, oppure Coordò perché è il coordinatore. Dice che dovranno chiamare Doc anche me, a me Daniela va benissimo, ma mi pare disdicevole replicare così e taccio. Avere un dottorato non è così ovvio qui. 
E’ a questo punto che gli chiedo se può abbassare la ventola di quel condizionatore che mi arriva dritto al collo. Lo spegne proprio. Troppo. Di lì a poco inizierà a sudare nella sua camicia a maniche lunghe.
L’urgenza è finire certe analisi entro dicembre, ribadisce, per coprire una buona parte della stagione delle piogge appena iniziata. Va bene, sono pronta.

Jey è sotto la porta del nostro ufficio. Dice "Toc toc, Coordò", recitando a voce quindi il gesto di bussare alla porta. Scoprirò presto che qui si usa così, quando non c’è una porta da bussare. E’ la studentessa che seguirò, viene da Kinshasa e mi chiama Madame Daniela. Jey porta una evidente parrucca di capelli lisci color marrone chiaro. Sotto quella parrucca si vedono i riccioli neri tutti serrati in trecce attaccate al cuoio capelluto. Anche questo è così qui. Acconciarsi i capelli sembra una cosa molto importante nell'estetica della donna congolese. E infatti è difficile a volte riconoscere qualcuno che hai già incontrato proprio per questa grande rapidità con cui le donne cambiano colore di capelli. Portano grandi trecce colorate, lunghe extension libere o raccolte a chignon e dentro i turbanti in wax. I negozi per strada vendono lunghi capelli in sacchetti di plastica, presumibilmente roba cinese. Recentemente mi è stato chiesto come avessi fatto ad avere i capelli di due colori. Il fatto è che uno dei due era il bianco della ricrescita, che necessitava imperativamente di essere coperta e di cui mi vergognavo anche un po'. E invece quel bianco era piaciuto. Quel bianco naturale che d'altronde qui stupisce in una donna di 45 anni, troppo giovane perché i capelli bianchi e che pertanto è per forza posticcio.

Il bac per attraversare il fiume Sangha
Jey non riesce a dire molto, sembra anche un po' emozionata all'idea di essere tutti insieme in quell'ufficio. Sbircio nella sua stanza, ha un piatto pieno di banane e arachidi. Mi viene in mente il mio collega Aristide che mi chiamava la primitive per il consumo smodato di banane che facevo a Tana. 
Siamo di nuovo io e il Coordò. Tra non molto andrà in ferie, e pertanto questo è un incontro e anche un arrivederci con passaggio di consegne. Il passaggio avverrà a Kabo, dove si fanno le attività di progetto e per andarci si attraversa il fiume Sangha.

la strada per Kabo
Kabo è ancora più a nord, di fronte al Camerun e più vicino alla Repubblica centroafricana. Il Sangha si attraversa con il bac, una chiatta a cui si attacca una pilotina che ti porta in 4 minuti dall’altra parte del fiume. Da lì si prende la via per Pokola, dove la foresta che si vede da Ouesso inizia a circondarti. Sono 3 ore di strada tutta sterrata, ma piatta e in buono stato. Più si avanza, più il verde domina sul rosso della strada argillosa. Lavoriamo a Kabo, Pokola, Makao, villaggi ai piedi della foresta che si sono popolati per la presenza di quella che qui si chiama la “concessione forestale”, vale a dire una compagnia cui il governo affida il compito di gestire la foresta. A Kabo mi portano subito a vedere il nostro ufficio, mi dicono “andiamo in Madagascar”. Non capisco. Poi scopro che lo chiamano così perché ha la forma di una palafitta senza essere sull’acqua.
A Kabo c’è il minimo indispensabile a volte neanche quello, così quando si parte da Ouesso è bene fare il carico di qualcosa che sia diverso da pane, sardine e vache qui rit. La sera si mangia nell’unica gargotte del luogo, è un’épicerie coi tavoli fuori e le grandi marmittes sul fuoco a legna. La gestisce la moglie di Bej, il nostro assistente. Pesce e manioca, ogni sera. E’ buono, il pesce cambia sempre, ma non sai quale sia, perché la luce sui tavoli non c’è e neanche sotto a quel gazebo dove si sente rumore di bottiglie di birra dei giovani Kabotiani.
la cena a Kabo
Kabo è un posto remoto, col cielo stellato che quasi ti schiaccia quando rientri a casa a buio o con la luna piena o con la torcia del telefono e Bej che ti fa da scorta, non perché è pericoloso, ma perché gli fa piacere venire con te. Per noi la casa è una stanza che la concessione forestale ci mette a disposizione. Al mattino la prima cosa che vedi è il Camerun al di là del fiume.

Nell’ufficio del Doc fa caldo anche per me adesso, vorrei uscire per lasciarlo libero di riaccendere il suo condizionatore. Gli faccio l’ultima domanda però: “Mi spieghi come funzionano le stagioni in Congo? Sono confusa”.
E’ importante saperlo, alla stagionalità è legato tutto: l’agricoltura, il livello di accessibilità a un luogo, la disponibilità di cibo, di corrente elettrica, acqua, internet…

 
 
La risposta è semplice e sorprendente. Mi dice che qui a Ouesso siamo in stagione umida, come aveva sempre detto d’altronde. E così scopro che stando qui sono appena sopra l’equatore, mentre Brazzaville invece si trova sotto di esso. E il mistero è risolto, qui stagione delle piogge, lì stagione secca, per soli 800 Km due climi completamenti differenti. Non so spiegarlo, ma è emozionante, è quel senso di (bio)diversità che si averte sulla pelle, diventato un po’ moda, un po’ rarità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La pioggia a Ouesso

 

12 ago 2021

Ouesso, una nuova meta.

Ouesso, Agosto 2021

I confini di Ouesso
Quando ho guardato dove si trovava Ouesso, ho inevitabilmente cercato appigli mentali per capire cosa potesse esserci di simile nella mia memoria tra i posti già visitati. Prima ho pensato al Marocco, tra le montagne dell’Atlas, poi sono finita a Morondava, la città nel secco arido dell’ovest del Madagascar, quella coi grandi baobab. Solo che a Ouesso non c’è il mare, ma un fiume. Il fiume Sangha. Sangha è anche il nome della Regione in cui Ouesso si trova. 

Mi trovo da meno di un mese nella Repubblica del Congo, il piccolo stato tra il vicino Congo Democratico, il vicino Camerun, il vicino Gabon e la vicina Repubblica Centro africana. Ouesso è ai confini.

Sono qui per via del mio nuovo lavoro. Si tratta di coordinare un progetto che si occupa di conservazione della biodiversità e al tempo stesso di sicurezza alimentare, in un paese dove la caccia alla fauna selvatica è l’attività principale, per la sopravvivenza e per il commercio a livello nazionale. 
Come tsaramaso, proverò a scrivere di quello che c’è qui e anche di quello che non c’è e lo farò un po’ alla volta, perché ci vorrà tempo e credo che ne avrò. Scrivere mi aiuta a capire di solito. Non è una cosa che sono riuscita a fare quando ero in Madagascar alla fine, non attraverso il blog intendo. Credo che qui in Congo mi sarà più necessario. E’ la mia prima volta in Africa Centrale, la prima volta in Congo ed è anche la prima volta che la città in cui starò si trova molto a nord.

Cominciamo. Da dove scrivo? Da un gazebo di cemento che sta nel mezzo di un grande giardino della casa che la ONG ci ha messo a disposizione. Quella che si vede al di là della finestra del gazebo è una ravinala, che è "la palma del viaggiatore" ed è il simbolo del Madagascar. Quando me la sono vista davanti, appena ho messo piede in casa, ho pensato che non si è mai del tutto persi. Rifletto spesso sulle coincidenze, le interconnessioni, i simboli e non riesco a prescinderne. Questa è stata davvero forte. 
La ravinala
Dietro di me sento i passi del guardiano, che è incuriosito da me, che credo rappresento un po' la novità all'apparente noia. A quanto pare - e per fortuna - il livello di sicurezza del Paese è elevato. Abbiamo tre guardiani che si alternano. A volte vengono quelli dell'ufficio a dare il cambio e pare che ci sia un judoka tra di loro e questa è una cosa buona per un potenziale incontro con l'aikidoka. Vedremo.

Lo stile coloniale della casa è imponente: porticato, colonne e soffitti su cui si vede l’impegno estetico della mano del costruttore - o di chi gli ha dato le indicazioni - ma poi nella casa non c’è un muro dritto, un pavimento piano, una parete senza un buco. Mi piace, soprattutto il fatto che deve ancora essere completata, adattata, resa funzionale, in particolare la mia stanza, che per il momento ha solo un letto enorme e le pareti azzurre. In casa siamo in quattro: un’italiana, una franco-spagnola, FS e due inglesi, UK1 e UK2. Lavoriamo tutti per la stessa ONG, ma su cose diverse. I miei coinquilini sono qui da due anni circa. Mi presentano la casa con molto entusiasmo, soprattutto il forno per la pizza che hanno costruito. La città invece me la descrivono per quello che non offre.

Dicono che Ouesso sia una “città di passaggio”, grazie al fiume intorno al quale si è espansa e dicono che nessuna tradizione si sia veramente radicata qui. Bah, voglio continuare a pensare che ogni luogo abbia la sua storia, seppur di passaggio.

Sono pronta a scambiare e inizierò partendo da quello che ho per costruire una nuova dimensione qui, che spero possa anche allargarsi. Costruirò la mia camera oscura, il keikogi è già piegato con l’hakama in cima e il tamburello ha già fatto spaventare gli altri due abitanti della casa: Boto e Nola, due cani.

Di Ouesso per il momento conosco la strada che faccio tutte le mattine e che è molto breve: abito a 500 mt dai due uffici. Al mio ci si arriva andando sempre dritto, impossibile perdersi anche col mio senso dell'orientamento pessimo. In generale le strade a Ouesso sono larghe, asfaltate e lungo i bordi ci sono i baracchini di legno, le case, i posticini per mangiare e i negozi veri con le scritte disegnate. Io memorizzo quest'ultime per non perdermi. E poi ci sono i bambini, le donne, gli uomini che lavorano, giocano o semplicemente guardano. Nei 500 mt del mattino dico almeno 15 buongiorno a tutte queste persone. Poi ci sono i buongiorno per i passanti occasionali e la cosa bella, e nuova, è che qui al buongiorno rispondono con “merci”. Per il momento mi fermo a parlare solo con il proprietario di un ex ristoro, gli manca il frigo e non può tenere e quindi servire il cibo. Spesso lo incontro lungo la trada e ironicamente mi dice di "sgranchirsi le braccia", perché si è costruito tutto un sistema di pedalata di braccia mlto efficace sulla sua sedia a rotelle. Vorrebbe riaprire il suo ristorante e preparare del cibo con le anatre che sta allevando.
A proposito di sopravvivenza, a Ouesso sembra esserci tutto quello che serve, manca invece quello cui siamo abituati, ma che se non lo hai, vivi lo stesso. Potrei chiamarlo superfluo, ma non è proprio il termine giusto. La prima volta che sono andata in un supermercato non ho trovato niente di locale. Niente. Tutto arriva dal Camerun e dal Gabon e gli abitanti pagano il prezzo del viaggio in termini economici (equivalenti ai prezzi europei) e di qualità del prodotto. Quindi non è proprio il superfluo che manca. Qui lavorare la terra non sembra essere una tradizione radicata. Soprattutto qui a nord, dove tuttavia la terra umida della foresta equatoriale fa crescere solo manioca e poi ancora manioca, di cui con le foglie ci fai il pesce in umido, con il tubero ci fai il companatico. Se esageri, sono dolori...è il dissenten più efficace che ci sia.

I supermercati e i piccoli alimentari sono di competenza dei mauritani. Bisogna solo ricordarselo il venerdì, che sono chiusi e avere pazienza se stanno pregando negli orari preposti. A Ouesso mi hanno introdotto ai vari Salem. Salem ha due piccoli supermercati, sul muro c’è scritto Salem1 e Salem2. Salem3 invece vende elettrodomestici e utensili. Un Salem ieri mi ha riconosciuto nel suo negozio (siamo meno di 10 espatriati in tutta Ouesso) era stato reclutato qualche pomeriggio fa dal fratello S3, quando cercavo una bilancia pesa alimenti. Ma è un superfluo e me la sono fatta arrivare da Brazzaville, la capitale,  con una collega. Quel pomeriggio S3 aveva tutte le TV accese con le olimpiadi in mondovisione. Era il giorno del nostro oro della staffetta...Si sono complimentati a partire dalla coppa d'Europa, fino alle Olimpiadi e sono quei momenti in cui un po' ti emozioni.

Ouesso ha due mercati, uno grande e uno piccolo. UK1 mi ha portato a quello piccolo e mi ha detto di non scoraggiarmi. Temevo quella frase. Quando si entra in questi mercati di solito la separazione netta tra vegetale e animale è sempre evidente ed è su base visiva e olfattiva.
Ci sono solo donne sedute dietro il  proprio bancone. Ti chiamano per mostrarti la montagnetta di cipolla, aglio, patata, peperone, pomorodo, spezie, foglie verdi (non identificate) e i dadi da brodo Maggi. Alcuni hanno anche il pili pili, il peperoncino locale, altri una cosa che chiamano pistaches. Non sono i nostri pistacchi, ma neanche le arachidi, come li chiamano in Madagascar, sono semi di zucca che diventano una crema da mettere su qualche piatto locale.

Fatto lo slalom sulle pietre, per evitare di affondare nel fango, l’odore diventa più forte e anche le mosche, ma non vedo le scopette fatte con le strisce di sacchetti della monnezza per allontanarle, come ho visto in diversi mercati. Ci sono dei pezzi di carne non ben identificata, sono molto scuri. Poi spuntano zampe di ungulati e delle code. Cerco di andare veloce, ma non posso non guardare, sono qui e ci abiterò. Riconosco delle bocche aperte e degli occhi in posizione frontale, proprio come i nostri. Sono le scimmie e da qui inizia tutto.

Lavoriamo perché queste scimmie non finiscano più nei mercati, così come le antilopi e i potamoceri. Il problema non è l’obiettivo da raggiungere, ma il modo per farlo, che rispetti chi ci vive e l’ambiente circostante. Una grande sfida che non saremo né i primi né gli ultimi a lanciare.

Le donne mi invitano a fermarmi, so che dovrei farlo per educazione, ma quella vista mi disturba. Almeno stavolta me lo concedo, è la prima volta.

Quando prendiamo il taxi per rientrare, ha iniziato a piovere. Il taxi passa davanti al Bac dove ci si imbarca per andare oltre il fiume e UK1 mi indica “la corniche”, una lunga strada lungo il fiume con costruzioni abbandonate o comunque vuote e vecchie insegne di qualche ristorante. Poi riprendiamo la grande strada principale, quella col cinema. Ci fermiamo perché desidero fare una delle primissime foto a quell’azzurro intenso di un cinema che per il momento non ha mai funzionato.
Il cinema di Ouesso, inaugurato poco prima dell'inizio della pandemia

Questo è, nell’attesa di altro.

Ben arrivati con me a Ouesso.

11 lug 2021

Peppe Voltarelli, planetario: ritrovarsi in uno dei tanti mondi del migrare

Da Antananarivo a Suvereto, ritrovarsi in uno dei tanti mondi del migrare.

Peppe Voltarelli di migrazione ne parla sempre nelle sue canzoni e lo fa in maniera acuta, sottile, profonda lui che “entra di sicc’ e poi di chiattu”.
Antananarivo, 2019

Nel 2018 tenne un concerto all’IFM di Antananarivo, forse non sapeva di essere il primo cantautore italiano a tenere un concerto in Madagascar. Cantò nelle sue molteplici lingue, dall’italiano, al francese inventato ma soprattutto cantò nel suo dialetto della “costa jonica calabrese del nord”, come dice lui. Noi italiani eravamo tanti, ma solo due del sud e molti del nord, poi francesi, malgasci, tedeschi, inglesi. E lui arrivò dritto al petto di tutti senza limiti linguistici. Qualcuno chiedeva traduzioni “perché capisco che dice cose importanti, ma non comprendo”, allora ci lanciammo in salti mortali di traduzioni franco-calabro-italiane per far passare quelle sfumature che Peppe rivela nelle sue canzoni. Come si fa a spiegare “qui si campa d’aria” a una francese o a un malgascio senza cadere nel cliché che lui, invece, trasforma in poesia? Fu bello, vero, onesto, potente sentire quanta forza ha il sud dentro tutti quelli che lasciano una terra per un’altra.

Suvereto, 2021
Il 7 luglio Peppe ha presentato a Suvereto il suo nuovo disco “Planetario” , nella rassegna salotto diVino. Una raccolta di contributi e storie di un lungo progetto che attraversa parte del pianeta con Silvio Rodríguez, Amancio Prada, Adriana Varela, Joan Manuel Serrat.
Un altro ambiente, un altro contesto, siamo nella maremma toscana con calici di vino e buon cibo, turisti stranieri e italiani di passaggio in vacanza a san Vincenzo. Peppe ci ha portato di nuovo in giro, nei concerti della tanto desiderata America del nord per poi scendere in Argentina, passando dal Belgio, dall’Olanda e per finire nel sud Italia. Ci ha fatto incontrare i Calabresi migrati nel Bronx, ci ha fatto piacere le brutture di Ostenda, che a gennaio deve essere “talmente terribile che ne ritrovi la bellezza”. Poi, a fine serata, in pochi intimi ci ha portato dagli amici di famiglia residenti a Buenos Aires.

Siamo tutti un po’ Marinai, e come tali abbiamo il compito di non fermarci nel nostro mondo, piccolo o grande che sia. Nel link la versione cantata al premio Tenco nel 2010, e nel video in basso la versione cantata ad Antananarivo con artisti malgasci.

Peppe, ci vediamo al prossimo porto, allora!


Qualche link:
Il sito di squilibri editore dove trovate il disco Planetario
Un video girato in Madagascar

20 mag 2021

una settimana di autoscatti, edizione 2021

 

E' online la mostra virtuale 2020-2021 del progetto



Una settimana di autoscatti è un progetto nato nel 2020, nel pieno del periodo del confinamento, a causa della pandemia da covid19.

Avevamo chiesto ad amici, parenti e conoscenti di giocare con noi per una settimana. La regola era di fare un autoscatto al giorno, seguendo 7 temi diversi. Per ogni giorno bisognava indossare un certo capo di abbigliamento e includere nello scatto uno specifico oggetto:

Giorno 1: Camicia bianca + bicchiere e bottiglia
Giorno 2: Canottiera + libro
Giorno 3: Costume da bagno + occhiali da sole
Giorno 4: Maglia a righe + spazzolino e dentifricio
Giorno 5: Giacca invernale con cappuccio + quaderno e penna
Giorno 6: Camicia e giacca + macchina fotografica
Giorno 7: Giacca senza camicia + frutto

L’autoscatto avrebbe permesso di partecipare anche a chi fosse rimasto da solo a casa.

La prima edizione del 2020 è stata accolta con profondo entusiasmo da circa 30 partecipanti sparsi nel mondo, ma anche con qualche insulto…chiari segnali del disagio che stavamo vivendo.

Poi, a un anno di distanza, abbiamo pensato di riprovare a riproporre il progetto per vedere "cosa fosse successo" tra un anno e l'altro. 
La riflessione è nata dal sentirsi e vedersi in una situazione esterna apparentemente simile a quella dell’anno precedente, ma profondamente diversa per quel che riguardava noi, come/cosa eravamo e siamo diventati, come singoli e come comunità. 
Quindi, stesso identico progetto, ma un anno dopo. 

Jean Michel, Ile de la Réunion
2020-2021
In questa edizione 2021 alcuni sono tornati a partecipare (12), altri si sono inseriti come "nuovi partecipanti" (17). Si sono osservate interessanti reazioni : alcuni hanno rinunciato dall’inizio, altri hanno abbandonato in corso d'opera. Abbiamo sentito molto entusiasmo, ma anche molta fatica, una dominante comune in questo secondo anno di pandemia. Per molti non c’era tempo, per altri è mancata la motivazione, chi ha parlato di profondo calo di umore o addirittura di depressione, chi all'inizio era entusiasta di aderire e poi ha dimenticato di partecipare. Un compito in più, quindi, che affaticava invece di stimolare. Più che comprensibile. 
 
Tra i partecipanti invece è successo che, se l'anno scorso la preoccupazione principale era dovuta alla difficoltà oggettiva di poter reperire degli oggetti o dei capi (perché davvero non si poteva uscire di casa) o al non sentirsi a proprio agio nell'indossare un costume (perché avevamo tutti preso peso);  quest'anno si è avvertita molta più preoccupazione sul come comporre il set, quale scelta stilistica, quale soluzione - figa - trovare, "devo proprio esserci io nelle foto?"

Jan Willem e Inge, Apeldoorn
2020-2021
Ogni partecipante alla fine ha trovato la sua strada espressiva, con un risultato davvero interessante, oltre che di alta qualità artistica. 
Chi ha giocato, ha giocato veramente, mostrando il proprio pensiero, il vissuto passato e attuale (per chi ha fatto le due edizioni, c'è una sezione appositamente dedicata sul sito). Chi ha scelto di farle tutte in esterno (perché si poteva!) chi si è diviso tra due citta (a causa della settimana spezzata dallo smartworking), chi ha rappresentato il "fittone dello yoga" maturato nel 2021, chi c'ha messo di mezzo la mascherina, chi si è imbattuto in editing interessanti di coppia tra i due anni.

E’ stato un gioco davvero interessante, in cui non si vince e non si perde, ma si partecipa anche non partecipando...

Per questo ringraziamo tutti quelli che hnno giocato con noi e anche quelli che ci hanno raccontato perché non lo hanno fatto. 
Alla prossima, chissà!

tema giorno 7: giacca senza camicia + frutto




Gli autori:


Michele Lischi: Dottore Forestale, Giornalista
Pubblicista,Istruttore Subacqueo , Fotografo, Velista, Campeggiatore.


Daniela Antonacci (Tsaramaso): - biologa - primatologa, esperta di comportamento sociale dei primati e appassionata di fotografia analogica e digitale.



31 mar 2021

Un omaggio a primavera.

Domenica scorsa è stato il primo vero giorno di primavera qui a Marina di Pisa, nonché l’ultimo giorno da arancioni prima di diventare rossi. Lo so che non se ne può più di queste frasi.
Così una passeggiatina in pineta ci stava bene.
Avevo un tesoro in mano: l’ultimo pacco della FP-100C silk, la pellicola istantanea della Fuji che va bene per le vecchie camera Land della Polaroid.

La pineta di Marina di Pisa è quella della pioggia nel pineto di D’Annunzio. Non tutti lo sanno, ma fa effetto saperlo. 
A me invece quella pineta restituisce l’immagine della selva oscura di Dante, così come me l’ero immaginata al liceo, con i suoi accessi fitti di vegetazione e chiome alte dei pini che si inerpicano e accomodano a formare una muraglia. Non si capisce quanto potrà essere profonda, buia, penetrabile. Una volta che ci entri poi è semplicemente una pineta, come molte altre: giochi di ombra e luce, pino, lentisco, cisto, corbezzolo, erica, euforbia, tronchi a pezzi, qualche casetta diroccata, un ponticello, qualcuno che passeggia col cane, in bicicletta, chi corre fino a Tirrenia e a terra le plastiche delle patatine e le carte igieniche dei bisogni impellenti e poi il silenzio, perché sono tutti sul lungomare a godersi la vista.


Polaroid Camera Land 210 
Pellicola istantanea fuji FP-100C silk
Bene, bisognava onorare questo momento e inventarsi qualcosa con la nostra
Land camera.
Land è il cognome di Edwin Land, lo scienziato che le inventò e poi co-fondò la Polaroid Corporation. La mia è una Land 210, comprata qualche anno fa a 20 euro su ebay e modificata per far funzionare l’esposimetro. In caso, QUI è spiegato come si fa. Purtroppo però al momento la fuji ha smesso di produrre queste pellicole, bellissime sia a colori sia in bianco e nero, ed è un vero peccato.





Arrivati in pineta, ci siamo dati il compito di penetrare in questo ambiente e fermare come siamo e come stiamo oggi.


Siamo vivi e temporaneamente uccisi.

Siamo presenti alla natura e siamo assenti a noi stessi.








Gli scatti e le idee sono anche di Michele Lischi.

20 mar 2021

365 dopo: moramora, sennò come?

 

Oggi, un anno fa.

Era deciso, bisognava lasciare il paese per l’emergenza covid, di cui in Madagascar si sentiva solo parlare attraverso gli echi dell’Europa. Era solo l’inizio.
C’era posto sull’aereo del 19 marzo, uno dei 4 posti rimasti sulla tratta Tana - Addis Abeba - Roma.
Il problema era smontare casa, impacchettare un anno e mezzo di cose e relazioni cercando di dare un ordine ad un affanno che era impossibile da domare. Questa era la vera difficoltà logistica ed emotiva. Così la guerra tra la corteccia prefrontale e l’amigdala incalzava.

Cominciai il viaggio di rientro il 17 marzo, quando acquistai il biglietto e lo finii oggi 20 marzo, quando misi piede a Roma.

Durante il tragitto si andava concretizzando man mano l’idea del pericolo della pandemia. Più si volava, più mi accorgevo dei volti tesi e spaesati. In aeroporto avevo incontrato gli ultimi turisti europei e americani rimasti in Madagascar per staccare dal disastro già iniziato a ovest. Qualcuno ci era venuto apposta.

In fila al check in davanti a me ricordo le 2 peace corp che lavoravano a sud dell’isola, uno dei sud più dimenticati del mondo. A loro era stato ordinato dal quartier generale di partire. Le due americane erano spaesate, piangevano per motivi che a Ivato sono normali e frequenti: la valigia troppo pesante, la calca delle persone al desk... Riuscivano solo a dire che sarebbe stato meglio rimanere in the middle of no where.
Quello sguardo di stupore e paura, a un anno di distanza lo ritrovo ancora oggi sui canali TV, sui social,  per strada…

Io aspettavo paziente il mio turno nella calca e nell’ansia di tutti di questa fuga improvvisa, anche della mia. Il grosso era fatto: avevo inscatolato 15 pacchi, distribuito roba e salutato Fanja, Florence, Roland, Tahina, Bazou, Ravaka, Dimby, Aristide, Vohang i colleghi e avevo fatto "ciao ciao" alla città dal finestrino dal pickup una volta arrivata in aeroporto con Nono. Ora si trattava di raggiungere il controllo passporti per l’ultimo "Je vous souhaite un bon voyage, Monsieur". Dovevo stare talmente concentrata e capire quale fila seguire, che non riuscivo a sentire la sofferenza del distacco da tutto quello che lasciavo. 
A un anno di distanza, quella sensazione di gestione del distacco la ritrovo, necessaria incombente, seppur sotto altre forme. E’ come se oggi non ci si possa permettere di avere la stessa paura di prima, la paura di una “fila che spinge”, ma dobbiamo capire come stare in fila senza che questa ci mangi.

A volte sorridevo a chi spingeva, con la mia solita strategia di rispondere ad un approccio aggressivo con uno volto alla complicità. Era la prima volta in cui mi accorsi di cosa volesse dire escludere le espressioni facciali dalla comunicazione, a causa della mascherina. 
Dopo un anno forse stiamo capendo che, accettare quella che giudichiamo follia altrui, ci farebbe vivere meglio (per poi capire che follia non è, ma diversità). Inoltre, dopo un anno di chirurgiche alla bocca adesso penso liberamente ad alta voce, tutte le volte che mi viene. Sarà bello vedere cosa succederà quando  toglieremo la mascherina. Potrei andare in giro con un registratore.

Ho fatto il viaggio accanto ad un tipo di Torino. Tra me e lui c’era un posto vuoto. Ci siamo parlati guardando davanti a noi per evitare di infettarci, lui veniva dal Kenya. Non sapevamo nulla di come comportarsi, ad esempio io avevo la mascherina sbagliata (quella con la valvola). A Roma ha sorvegliato i miei bagagli mentre prenotavo la macchina a noleggio per andare a Pisa e ci siamo detti buona fortuna. Un incontro come molti altri fatti nei lunghi voli: qualcuno di cui non sai il nome o lo dimentichi e di cui resterà un ricordo piacevole (o spiacevole). Questo non cambierà mai negli anni, credo. Basta avere pazienza.

A Roma c’era del nervosismo locale “te devi allontanà!” L’autostrada era vuota. Viaggiavo coi guanti e i disinfettanti a portata di mano, come mi avevano detto.
E più mi avvicinavo a casa e più pensavo al fatto che avevo fatto bene a lasciare alcuni pacchi in ufficio con alcuni effetti personali e il materiale per la camera oscura, vedi mai un giorno dovessi ritornare.
A 365 giorni di distanza mi dicono che quei pacchi sono ancora lì ad aspettarmi “Moramora, Danielà”.
A un anno di distanza ho capito finalmente la necessità del moramora.




Gli scatti sono stati realizzati con Nikon FM2 e Yashika Mat 124

18 feb 2021

Ritratti di un'estate particolare

Dall'album "being behind, being in front", qualche sguardo fotografato nel 2020. 

Era estate, durante la fuga verso il sud Italia. Grazie a chi ha posato alla giusta distanza dalla Mamiya C3.

Marco e Ola, la Torretta, Mesagne - BR

Mariangela, Matera

Pietro, la Torretta, Mesagne - BR

Silvia, la Torretta, Mesagne - BR

Carlo, Mesagne - BR

Giuseppe, Leverano - LE

Michele, Marina di Pisa - PI

Mamiya C3
Kodak 400 TriX

L'album completo si trova qui