A tutto Est: in Giappone

31 mar 2021

Un omaggio a primavera.

Domenica scorsa è stato il primo vero giorno di primavera qui a Marina di Pisa, nonché l’ultimo giorno da arancioni prima di diventare rossi. Lo so che non se ne può più di queste frasi.
Così una passeggiatina in pineta ci stava bene.
Avevo un tesoro in mano: l’ultimo pacco della FP-100C silk, la pellicola istantanea della Fuji che va bene per le vecchie camera Land della Polaroid.

La pineta di Marina di Pisa è quella della pioggia nel pineto di D’Annunzio. Non tutti lo sanno, ma fa effetto saperlo. 
A me invece quella pineta restituisce l’immagine della selva oscura di Dante, così come me l’ero immaginata al liceo, con i suoi accessi fitti di vegetazione e chiome alte dei pini che si inerpicano e accomodano a formare una muraglia. Non si capisce quanto potrà essere profonda, buia, penetrabile. Una volta che ci entri poi è semplicemente una pineta, come molte altre: giochi di ombra e luce, pino, lentisco, cisto, corbezzolo, erica, euforbia, tronchi a pezzi, qualche casetta diroccata, un ponticello, qualcuno che passeggia col cane, in bicicletta, chi corre fino a Tirrenia e a terra le plastiche delle patatine e le carte igieniche dei bisogni impellenti e poi il silenzio, perché sono tutti sul lungomare a godersi la vista.


Polaroid Camera Land 210 
Pellicola istantanea fuji FP-100C silk
Bene, bisognava onorare questo momento e inventarsi qualcosa con la nostra
Land camera.
Land è il cognome di Edwin Land, lo scienziato che le inventò e poi co-fondò la Polaroid Corporation. La mia è una Land 210, comprata qualche anno fa a 20 euro su ebay e modificata per far funzionare l’esposimetro. In caso, QUI è spiegato come si fa. Purtroppo però al momento la fuji ha smesso di produrre queste pellicole, bellissime sia a colori sia in bianco e nero, ed è un vero peccato.





Arrivati in pineta, ci siamo dati il compito di penetrare in questo ambiente e fermare come siamo e come stiamo oggi.


Siamo vivi e temporaneamente uccisi.

Siamo presenti alla natura e siamo assenti a noi stessi.








Gli scatti e le idee sono anche di Michele Lischi.

20 mar 2021

365 dopo: moramora, sennò come?

 

Oggi, un anno fa.

Era deciso, bisognava lasciare il paese per l’emergenza covid, di cui in Madagascar si sentiva solo parlare attraverso gli echi dell’Europa. Era solo l’inizio.
C’era posto sull’aereo del 19 marzo, uno dei 4 posti rimasti sulla tratta Tana - Addis Abeba - Roma.
Il problema era smontare casa, impacchettare un anno e mezzo di cose e relazioni cercando di dare un ordine ad un affanno che era impossibile da domare. Questa era la vera difficoltà logistica ed emotiva. Così la guerra tra la corteccia prefrontale e l’amigdala incalzava.

Cominciai il viaggio di rientro il 17 marzo, quando acquistai il biglietto e lo finii oggi 20 marzo, quando misi piede a Roma.

Durante il tragitto si andava concretizzando man mano l’idea del pericolo della pandemia. Più si volava, più mi accorgevo dei volti tesi e spaesati. In aeroporto avevo incontrato gli ultimi turisti europei e americani rimasti in Madagascar per staccare dal disastro già iniziato a ovest. Qualcuno ci era venuto apposta.

In fila al check in davanti a me ricordo le 2 peace corp che lavoravano a sud dell’isola, uno dei sud più dimenticati del mondo. A loro era stato ordinato dal quartier generale di partire. Le due americane erano spaesate, piangevano per motivi che a Ivato sono normali e frequenti: la valigia troppo pesante, la calca delle persone al desk... Riuscivano solo a dire che sarebbe stato meglio rimanere in the middle of no where.
Quello sguardo di stupore e paura, a un anno di distanza lo ritrovo ancora oggi sui canali TV, sui social,  per strada…

Io aspettavo paziente il mio turno nella calca e nell’ansia di tutti di questa fuga improvvisa, anche della mia. Il grosso era fatto: avevo inscatolato 15 pacchi, distribuito roba e salutato Fanja, Florence, Roland, Tahina, Bazou, Ravaka, Dimby, Aristide, Vohang i colleghi e avevo fatto "ciao ciao" alla città dal finestrino dal pickup una volta arrivata in aeroporto con Nono. Ora si trattava di raggiungere il controllo passporti per l’ultimo "Je vous souhaite un bon voyage, Monsieur". Dovevo stare talmente concentrata e capire quale fila seguire, che non riuscivo a sentire la sofferenza del distacco da tutto quello che lasciavo. 
A un anno di distanza, quella sensazione di gestione del distacco la ritrovo, necessaria incombente, seppur sotto altre forme. E’ come se oggi non ci si possa permettere di avere la stessa paura di prima, la paura di una “fila che spinge”, ma dobbiamo capire come stare in fila senza che questa ci mangi.

A volte sorridevo a chi spingeva, con la mia solita strategia di rispondere ad un approccio aggressivo con uno volto alla complicità. Era la prima volta in cui mi accorsi di cosa volesse dire escludere le espressioni facciali dalla comunicazione, a causa della mascherina. 
Dopo un anno forse stiamo capendo che, accettare quella che giudichiamo follia altrui, ci farebbe vivere meglio (per poi capire che follia non è, ma diversità). Inoltre, dopo un anno di chirurgiche alla bocca adesso penso liberamente ad alta voce, tutte le volte che mi viene. Sarà bello vedere cosa succederà quando  toglieremo la mascherina. Potrei andare in giro con un registratore.

Ho fatto il viaggio accanto ad un tipo di Torino. Tra me e lui c’era un posto vuoto. Ci siamo parlati guardando davanti a noi per evitare di infettarci, lui veniva dal Kenya. Non sapevamo nulla di come comportarsi, ad esempio io avevo la mascherina sbagliata (quella con la valvola). A Roma ha sorvegliato i miei bagagli mentre prenotavo la macchina a noleggio per andare a Pisa e ci siamo detti buona fortuna. Un incontro come molti altri fatti nei lunghi voli: qualcuno di cui non sai il nome o lo dimentichi e di cui resterà un ricordo piacevole (o spiacevole). Questo non cambierà mai negli anni, credo. Basta avere pazienza.

A Roma c’era del nervosismo locale “te devi allontanà!” L’autostrada era vuota. Viaggiavo coi guanti e i disinfettanti a portata di mano, come mi avevano detto.
E più mi avvicinavo a casa e più pensavo al fatto che avevo fatto bene a lasciare alcuni pacchi in ufficio con alcuni effetti personali e il materiale per la camera oscura, vedi mai un giorno dovessi ritornare.
A 365 giorni di distanza mi dicono che quei pacchi sono ancora lì ad aspettarmi “Moramora, Danielà”.
A un anno di distanza ho capito finalmente la necessità del moramora.




Gli scatti sono stati realizzati con Nikon FM2 e Yashika Mat 124