ENGLIGH BELOW
“Mi manca questo modo di vivere il cinema” finisce così il messaggio di E. che mi arriva a seguito del mio racconto di “una prima volta” vissuta in Congo, anche dopo due anni e mezzo. Sono andata al cinema, ho visto un docu-film che si chiama “le spectre de Boko Haram”. Alla fine ci vado da sola, nessuno è interessato.Arrivo con un minuto di anticipo, ma “la sala non è ancora pronta” mi dice il tipo all’entrata. Sono all’IFC, l’Istituto Francese del Congo. Niente a che fare con l’IF Madagascar, molto più ambizioso e con un’offerta oltre misura rispetto a qui: documentari su Peter Brook, concerti di musiche di Monteverdi, festival di corti e il grande Beppe Voltarelli, dove arrivai in groppa ad una moto di uno che si chiamava Antonio e che mi salvò dal traffico di Tana.
Qui è tutto più misurato, semplice. Nella sala le poltroncine sono in realtà sedie da congresso in plastica e lo schermo un grande lenzuolo, ma ben tirato. Il film inizia con due bambini che parlano la lingua locale del nord del Camerun. Dopo essersi accorti di non aver attivato i sottotitoli, fanno ripartire il film. In sala c’erano per la maggior parte africani congolesi, west africani e qualche espatriato occidentale.
Il film parla della vita quotidiana di un villaggio controllato da BH, raccontato attraverso la storia di due fratelli deportati in questo villaggio e desiderosi di tornare a casa.
L’orario di inizio è solo indicativo per il pubblico. La gente entra in qualunque momento e alcuni escono per rispondere a dei nokia 2030 che suonano con le suonerie dei primi anni del 2000. Accanto a me ci sono due omini. Uno ha anche molti capelli bianchi, il che denota una età parecchio avanzata, vista la rarità di questo tratto nel popolo africano. Accanto il suo amico dai lineamenti indianeggianti, anche lui di una certa età. I due non esitano a commentare le scene del film durante la sua intera durata.
Il documentario è molto ironico, a tratti esilarante nella scena dei fratelli che si testano sulle capacità matematiche.
Non sapevo che BH controllasse il nord del Camerun, inoltre la lingua locale non ha niente a che fare con il Lingala, però l’accento è lui, quello di questa Africa Centrale ormai inconfondibile pieno di d’abord, seulement et vraiment.
Quando le luci della sala sono ancora spente e i titoli scorrono, c’è il tipo che animerà la discussione che ha già cominciato a presentarsi. Il ghiaccio si rompe subito. L’occidentale fa la sua domanda intellettuale, tutti gli altri invece insistono sulla comprensione della trama del film “Come mai i due bambini alla fine non sono più al villaggio?” “Perché ci fate vedere solo la vita del villaggio, mi aspettavo di vedere come agisce BH” “Come si chiamava la mamma del bambino?”
Gli omini anziani commentano la dolcezza del piccolo che “voleva sapere il colore dei capelli di sua madre che BH aveva ucciso”, se qualcuno non lo avesse capito.
La ragazza sulla porta, che è nell’organizzazione di questa serie di documentari, ci dice che la voce dei bambini è importante per capire cosa sia una guerra o essere sotto occupazione. Ci racconta che lei la guerra del 1997 se la ricorda, era bambina quando suo padre, mentre camminavano le disse di correre e “plonger”. Lei quel "immergetevi” dice di non averlo mai capito, ma che corse e corse e corse e sentì per gli anni a venire l’istinto di correre, quando era per strada tra la folla. Ce lo racconta talmente bene, senza enfasi né retorica, che per qualche lunghissimo secondo restiamo tutti in silenzio...silenzio rotto dall’omino dai capelli bianchi con un “c’est bon? On peut partir?”
Quel “beh?” che a noi italiani serve per annunciare che è il momento di andare.
Lascio qui le
coordinate di questo docu-film che vale la pena di vedere. Non fosse altro per
rispondere alle domande degli omini.
"I miss this way of experiencing cinema" thus ends E.'s message to me, following my account of a-first-time-experienced in Congo, even two and a half years. I went to the cinema, I saw a docu-film called 'le spectre de Boko Haram'.
In the end I go alone, no one is interested.
I arrive a minute early, but 'the theatre is not ready yet' the guy at the entrance tells me. I am at the IFC, the French Institute of the Congo. Nothing to do with the IF Madagascar, which is much more ambitious and has an oversized offer than here: documentaries on Peter Brook, concerts of music by Monteverdi, festivals of short films and the great Beppe Voltarelli, where I arrived on the back of a motorbike belonging to someone called Antonio and who saved me from the traffic in Tana.
Here everything is more measured, simple. In the hall the armchairs are actually plastic conference chairs and the screen a large sheet, but tightly drawn. The film begins with two children speaking the local language of northern Cameroon. After realising they had not activated the subtitles, they restart the film. In the hall were mostly Congolese Africans, West Africans and a few Western expatriates.
The film is about daily life in a village controlled by BH, told through the story of two brothers deported to this village and longing to return home.
The start time is only an indication for the audience. People come in at any time and some leave to answer nokia 2030s ringing with ringtones from the early 2000s. Next to me are two little men. One also has a lot of white hair, which denotes a rather advanced age, given the rarity of this trait in African people. Next to him is his friend with Indian features, also of a certain age. The two do not hesitate to comment on scenes in the film throughout.
The documentary is very ironic, at times hilarious in the scene of the brothers testing each other's mathematical skills.
I did not know that BH controlled the north of Cameroon, moreover the local language has nothing to do with Lingala, but the accent is him, that of this Central Africa now unmistakable full of d'abord, seulement et vraiment.
When the hall lights are still off and the titles are flowing, there is the guy who will animate the discussion who has already begun to introduce himself. The ice is immediately broken. The westerner asks his intellectual question, everyone else instead insists on understanding the plot of the film "how come the two children are no longer in the village at the end?" "why do you only show us village life, I was expecting to see how BH acts" "what was the name of the child's mother?" The old men comment on the sweetness of the little one who "wanted to know the colour of his mother's hair that BH had killed", in case anyone missed it.
The girl at the door, who is in the organisation of this documentary series, tells us that children's voices are important in understanding what a war is or being under occupation. She tells us that she remembers the war of 1997, she was a child when her father, while walking, told her to run and "plonger". She says she never understood that diving, but that she ran and ran and ran and felt for years to come the instinct to run, when she was on the street in the crowd. She tells us so well, without emphasis or rhetoric, that for a few very long seconds we all remain silent...silence then broken by the old white-haired man with a "c'est bon? On peut partir?" That "well?" that we use to announce that it is time to go.
I leave the coordinates of this docu-film that is well worth seeing. If only to answer the old men's questions.
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