A tutto Est: in Giappone

13 dic 2023

Tra le onde dell'oceano

All’inizio di un viaggio o percorso è tutto una scoperta, poi ti abitui e diventa tutto un po’ un’abitudine. Quando poi sta per finire, l’attenzione risale e ci si concentra un po’ di più per non perdere i dettagli.

Martedi 31 ottobre 2023: Brazzaville - Ouesso
Anche quello di oggi sarà un viaggio speciale, con qualche scoperta in più, come ogni volta su questa strada. Sto tornando a Ouesso. All’andata, 10 giorni fa, ho visto paesaggi e luci bellissime in cui non mi ero mai imbattuta. Oggi invece è grigio e la nebbia si poggia sui pochi alberi di Kintele, a pochi km da Brazzaville.
La regione del Pool

Come sempre ho la musica alle orecchie. L’algoritmo ha scelto Generale di De Gregori. Oggi sono seduta dietro. A sedere al posto davanti c’è le CTP (il Consigliere Tecnico Principale), un congolese di Brazzaville che vive a Kabo dove si smazza tutti i progetti, dalla lotta al bracconaggio allo sviluppo comunitario. Mi piace molto. E’ tra le persone che mi hanno insegnato a essere paziente e tollerante.

Accanto a me ho un tipo in missione breve qui, non so altro di lui. Lo chiameremo P. Non capisco neanche se sia inglese o americano. Non parla. E’ da ieri sera alla case che lo vedo, ma a stento ha detto bonjour. Ho imparato a non insistere più e poi ieri io ero eccezionalmente silenziosa. Accanto a  P. c’è An, che dorme già.
Oggi alla guida c'è Vin e abbiamo già fatto tutti i nostri riti: ci siamo fermati a pain du sucre per le brioche, ripassato le parole Italiane che conosce e dopo Kintele - indicando a destra e a sinistra della strada - si è lamentato di come si possa comprare casa lì sotto la strada, vicino al fiume su un terreno fatto di sabbia « ça va tout partir à la prèmière pluie! ». Lo dice ogni volta.
Nell’altra macchina invece c’è Lé, con cui non parleremo e rideremo come ogni volta per tutto il viaggio per poi addormentarmi per sfinimento a pochi Km dall'arrivo a Oyo, quando cambierò macchina e lui rientrerà a Ouesso. Mi va bene essere con Vin oggi, con lui potrò prendere delle pause di silenzio.

L’algoritmo passa a How do I say goodbye di Dean Lewis. Come si dice arrivederci a qualcuno che in realtà non rivedrai mai più? Casca a pennello e sono costretta a schiacciarmi al finestrino e guardare fuori per pensare alla risposta a questa domanda.

Pioviggina e le spalle mi bruciano un po’, devo aver esagerato al sole nel weekend che mi sono concessa a Pointe Noire qualche giorno fa. Mi piace Pointe Noire e quando posso faccio una fuga proprio lì,  dove c'è l’oceano. Una pausa, dopo i giorni faticosi a Brazzaville di lavoro intenso. A Brazzaville in questi giorni si sta svilgendo il summit dei tre ba1cini. E la prossima settimana a Ouesso sarà ancora più intensa.
E così quando Mag mi dice che avrebbe fatto il week end dei morti a Pointe Noire, le ho annunciato che non sarebbe stata da sola e che almeno sabato e domenica sarei andata con lei. 
“Deal!” mi dice.
Corro a comprare il biglietto dagli indiani dell'agenzia in città. Non c’è ovviamente posto in economic col primo volo di domani, così per la prima volta in vita mia ho un biglietto di business class.

Sabato 28 ottobre: Pointe Noire
La business class alla fine consiste in un succo di mango. Intorno a me gente in cravatta e camice in wax su corpi di Bantu forti e fieri. Io in pantaloni da campo e t-shirt, al gate sono quasi stata respinta al gate.

Pointe Noire ha un odore speciale, un misto tra smog e salsedine che ti assale subito. Propongo a Mag di fermarci a casa Papaya prima di andare al nostro lodge. Casa Papaya è un bar della « Cote sauvage » che avevo frequentato durante la mia prima volta a Pointe Noire. Ci passiamo 3 ore e due birre per uno, Bella Ciao in versione elettronica che esce da una cassa sulla spiaggia ed è già pace, relax, pensieri positivi e necessari. C'è tanta fatica che affolla la mia testa in questi mesi, soprattutto da quando abbiamo aggiunto ancora una guerra in questo mondo folle e c'è la sensazione che, con grande facilità, ormai tutto possa facilmente essere spazzato via in un soffio.

Casa Papaya
Il nostro lodge è in un villaggio a 30 minuti a sud dalla città. Un paradiso inatteso davanti all’oceano. Il taxi men si chiama Léo, anche lui.
Riconosco i murales per strada, ho già fatto quel tragitto ed è la parte che preferisco a Pointe Noire. Ci si allontana dalla città e la zona non è meta di seconde case dei numerosi espatriati residenti, per lo più imprenditori, petrolieri, costruttori. L’oceano qui è troppo aperto e le onde sono potenti per questa gente, che invece va verso il nord della città.

Domenica 29 ottobre: Pointe Noire
Sono proprio quelle onde che oggi ho registrato in un vocale di 10 minuti destinato a Silvia. Un mese prima aveva risposto alla mia chiamata dicendo che se avevo voglia potevo scriverle, che era un momento di « ritiro » e che non avrebbe risposto al telefono. Ho aspettato il momento giusto, quello che pensiamo sia tale, nella lotta contro il tempo e le vite frenetiche che conduciamo, quel momento in cui metti insieme i pensieri e li traduci in parole. Così, non le avevo ancora mai scritto fino a quando non mi sono ritrovata da sola, lungo l'oceano con il rumore delle onde. Mag nel frattempo è sotto un ombrellone in piscina, per difendere la sua pelle chiara.
Mentre registro un ragazzo si avvicina e mi chiede se può sedersi con me e farmi compagnia. E' molto probabile che sia quel tipo di compagnia che i bianchi pagano per noia, potere e altre manifestazioni aberranti. Gli faccio segno di no. Si siede lo stesso a 50 mt da me e resta lì sotto il sole cocente.
Nel vocale le racconto un po’ di me, di questi giorni di ora qui in Congo, della decisione di tornare in Italia nel 2024 e dell’esperienza con i bambini dell’aikido. Silvia è stata une delle prime persone con cui avevo fatto un percorso di teatro. Avevo 19 anni e venivo dal sud Italia, totalmente ignara che si potesse fare un certo tipo di lavoro fisico e che questo si potesse chiamare teatro. Lavorammo sull’Angelo sterminatore di Bunuel con lei e Nené e pochi tra noi avevano aspirazioni di diventare attore o attrice. Tuttavia uscimmo tutti da quel percorso un po’ diversi da come ci eravamo entrati. Nacquero delle amicizie e l’interesse per il teatro continuò per molti di noi. Per me lei era una donna nuova, di una bellezza e un fascino esteriori e interiori con cui non mi ero mai confrontata prima. Quando chiudo il messaggio le dico che spero che stia vivendo con tranquillità il suo momento di ritiro e di sofferenza.

Con Mag ci incontriamo al bar per la pausa pranzo, prendo solo da bere, la colazione del mattino sarebbe bastata fino a sera.
Parliamo guardando l’oceano dall’alto dalla paillotte del Lodge. Nel pomeriggio ci dividiamo di nuovo. Io torno in spiaggia e Mag va in camera per la siesta, la piscina adesso è invasa da un matrimonio in cui tutti gli invitati sono vestiti di bianco. Li chiameremo « la secte des blancs ».
Con Mag mi trovo bene, è svizzera ma non troppo, appassionata di tante cose compresa l’Italia di cui conosce la lingua e quando la parla la sua voce si trasforma. Mi piace ascoltarla, mi piace come costruisce un discorso, i termini che usa e il fatto che parli per esempi e per me diventa tutto molto chiaro. Ogni volta sono scambi in cui si va in profondità, anche a rischio di turbarsi emotivamente. Che poi è il bello di essere espatriati: un po' quella cosa che chiamiamo alchimia.

Quando torno in spiaggia il mare è un po’ più rinforzato e sto attenta con le onde che possono travolgere. L’Atlantico è decisamente più aggressivo dell’Indiano.

Martedi 31 ottobre: Brazzaville - Ouesso
Nel frattempo con la macchina arriviamo a Oyo. Stop. Kiss. Pranzo dall'amico del montone e si riparte, P. ce lo stavamo scordando, per la cronaca. Le conseguenze del suo silenzio.

8 ottobre 2013: Pontedera
"Vediamo cosa diventa" mi disse Silvia mentre si arrotolava la sigaretta, fuori dalla camera ardente allestita in teatro per la sua gemella Luisa. C'era una foto di Luisa mentre si specchiava nel camerino del teatro. Di una bellezza esplosiva, diversamente da quella di Silvia sempre nella sua tipica espressione, profondamente presente a tutto e dalla gestualità pulita e posata.
Imparai da Silvia anche in quell’occasione, imparai che le cose vale la pena viverle, anche se dolorose e fuori dal nostro controllo, come il distacco, la morte. 
Avevamo lavorato sul tema durante un laboratorio sul Re Lear. Celebravamo la sua morte. Io scelsi un personaggio maschile, il duca di Kent. Fu una necessità, dovevamo ricordare l'immagine del distacco da una persona cara e io pensai a mio padre davanti al letto di morte di sua madre. In quella Silvia mi disse “Daniela, ricordati che Kent ha un sesso”. 
Silvia Pasello - Pisa, 1997
Negli anni successivi alla morte di Luisa, imparai da Silvia che si può vivere senza un pezzo di sé. « Le gemelle Pasello » le chiamavano così negli anni d’oro e oscuri del teatro, che non hanno mai smesso di fare forse per intima necessità, oltre che passione e amore.

Martedi 31 ottobre: Brazzaville - Ouesso
Le nuvole oggi sulla strada per Ouesso si posano basse attraverso i kilometri del nulla della regione del Pool del Congo. Sembrano fumo che sale dal verde delle colline verdi.
Sempre con la testa schiacciata verso il finestrino cerco un difficile controllo delle lacrime che scorrono impetuose a causa di quella combinazione musica/pensiero che attiva il sistema limbico e che la ragione non può bloccare. E deve essere proprio quel dolore di cui mi parlava Silvia, a cui abbandonarsi e da cui lasciarsi attraversare.
Silvia aveva "le sue frasi" che usava per riportarci verso azioni teatrali che potessero essere credibili al pubblico. 
Una di quelle fu il « se devi cadere, cadi » che disse a Mar, che provava a cadere dalla sedia, ma senza ancora aver trovato un buon motivo nella sua azione. Eravamo tutti affascinati dal suo modo di parlare, muoversi ma soprattutto insegnare. Silvia, bella, presente, forte, con lo sguardo sempre ad altezza occhi. Adoravo quel taglio di capelli corti. Li tagliai anche io. 
Ho ben chiaro in mente il momento in cui scelsi di seguirla per costruire il mio percorso di crescita. Io non volevo fare l’attrice, volevo continuare a essere scienziata, la Biologia mi affascinava e in particolare mi appassionava lo studio del fenomeno delle cose. E lei era la persona giusta per quell'esercizio di comprensione di cosa c'è dietro le cose e i compoprtamenti, nella fattispecie tutto il lavoro di un attore, prima di salire sulla scena davanti a un pubblico. Non ho mai smesso di fare quell'esercizio di ricerca e comprensione, anche quando ci siamo separate. Aveva proprio in-segnato. « Ci siamo scelte » mi disse una volta. Ed era così. E la sentivo un po’ come una responsabilità.

Domenica 29 ottobre: Pointe Noire
Dalla spiaggia vengo via prima del tramonto, per ripetere l'esperienza della birra con Mag al tramonto dalla paillotte del lodge. Ma il tramonto lo perdiamo, come perdiamo noi stesse nei mille discorsi di questo weekend che per me sta finendo. L'indomani il mio aereo è previsto per le 7h30. Il gestore del Lodge mi assicura che alle 5h30 avrei avuto un autista per l'aeroporto. Mi fido.

Lunedi 30 ottobre: Pointe Noire/Brazzaville
Il tipo è puntuale, stranamente, ma quando monto in macchina la batteria è a terra. Sbalordito prova a spingere con degli aiutanti, ma è un grande pickup e il terreno è sabbioso. C’è un altro pickup lì accanto, ma quando trafelato prova ad accenderlo anche quello è con la batteria a terra. Sono le 6 e sono ancora lì. Chiedo un taxi, ma il tipo non demorde, vuole quei 10.000 franchi e io glieli darei, ma non ci sono le condizioni. La decisione la prendo quando vedo che per disperazione usa i cavi per caricare una delle due batterie scariche da una delle due batterie scariche. Un po’ come col ragazzo in spiaggia dico con convinzione che vorrei un taxi per l’aeroporto. Tra i tre presenti ce n'è uno vestito di tutto punto e senza scarpe. E' lui che abbozza l’idea che qualcuno mi porti en vélo in paese per prendere un taxi. Prima di urlare « Quale vélo?? » con tutta la Puglia che è in me, mi ricordo che vélo qui è moto e bicicletta è vélo pédale.

La moto è un po’ più grande di uno scooter. Non ho scelta. Monto e partiamo. No casco, no rispetto di limiti, evidentemente inesistenti su strada prevalentemente sabbiosa, con ruota posteriore che talvolta sfugge al controllo. La visione di me con gamba rotta e rimpatrio si delinea. Poi finalmente l’asfalto, poi il taxi. Sono le 6:15 e partiamo. Dopo 50mt il tassista a cui era stato raccomandato di andare dritto in aeroporto si ferma da un Gheddafi per fare rifornimento. Per chi non lo sapesse, si chiamano così i rifornitori abusivi di carburante venduto in bottiglie di Pastis. Il tipo chiede 15 litri, che vuol dire una infinità di bottiglie. Alle 6:20 il Gheddafi non ha il resto, faccio notare al taxi men che il mio aereo è alle 7:30. Sgrana gli occhi, lascia il resto al petit, come chiamano qui il garzone e corre a tutta randa verso l’aeroporto, facendo slalom tra camion e macchine del primo risveglio cittadino. Arrivo in aeroporto alle 6:40 e il check-in è ancora aperto, grazie alla quantità spropositata di bagagli che la gente trasporta per se e per altri intermediari che si infilano a metà fila.
Come annullare la calma e il relax di un weekend improvvisato, penso. Ma almeno l'aereo non è perso. Rientro in economic e coca cola al posto del succo di mango.

Quando arrivo a Brazzaville, ho giusto il tempo di lasciare la roba alla case e gettarmi nelle riunioni del lunedì. C’è ancora tantissima gente in missione che occupa la sala meeting. Sono devastata, ho dormito 4 ore, ma ho respirato oceano e terra di sud, che mi fa sempre bene.
Rientro per pranzo alla case. Ros ha come al solito appoggiato la parrucca sull’asse da stiro mentre pulisce parlando ininterrottamente al telefono. Mangio il mio avocado con pomodoro e mi stendo 5 minuti sul grande divano della sala per una micro pausa. Guardo il telefono. Ho ricevuto un messaggio dal numero di Silvia in risposta al mio vocale che risulta non ascoltato, tuttavia. Il messaggio inizia con un “cari e care”, poi senza continuare a leggere vedo che mi hanno scritto Pao, Ele, Eli e Mic che mi chiede di chiamarlo e piano piano il suono della risacca dell'oceano risuona nella mia testa. 
“Silvia non c’è più, è volata via...” dice il messaggio.
Mi congelo, come è prevedibile.
Rileggo il messaggio.
“Silvia non c’è più, è volata via...”
“Oppure flotta tra le onde dell’Atlantico di Pointe Noire...” mi dico.

Martedi 31 ottobre: Brazzaville - Ouesso
Il lungo viaggio tra Brazzaville e Ouesso, appiccicata al finestrino, mentre musica e pensiero mi fanno piangere, mi fa bene, nonostante l'imbarazzo che qualcuno possa accorgersi che Daniela-la-forte sia crollata. In questo viaggio ricordo, immagino, ricostruisco scene vissute e di fantasia.
Mi convinco che la cosa bella sarà scoprire un giorno che la sua morte avrà rappresentato ancora un altro momento speciale che Silvia ci avrà regalato. Sarà un modo di mettere in atto quel vivere senza un pezzo, come aveva fatto lei.
Ma è presto. Per ora so che non mancherai e basta, molto di più.

Plage de Djeno - Pointe Noire


16 ott 2023

Quale sorpresa migliore!

ENGLISH BELOW

Rientrata dalle ferie estive pianifico 10 giorni a Brazzaville, ho qualche attività da fare. Sarà anche l'occasione di stare con gli amici e i colleghi della capitale, fare aikido e rientrare così gradualmente nella vita di qui e poi procedere verso il nord, verso Ouesso.

Poiché è un venerdì, chiamo il maestro di aikido del dojo che sta a 3 minuti dall’ufficio. Maître Jac mi dice che non ci sarà lezione perché a cominciare dal pomeriggio ci sarà uno stage al dojo del parco zoologico, (che poi è l'altro dojo che frequento). Ci diamo appuntamento lì e, contenta penso che il mio rientro nel paese, nonché il weekend, abbiano preso la piega migliore. Giro l'angolo della strada e incontro Senpai Flu, gli indico il telefono e gli mostro che lo stavo chiamando proprio in quel momento. Flu  è stata la mia porta di entrata all’aikido di qui. Intuisco che lui non verrà, adduce ragioni confuse (mai diretti qui, eh!) Sospetto i soliti problemi politici tra club, che poi è il motivo per il quale adesso a Ouesso non pratico più con gli adulti, ma insegno a ragazzini e bambini.

Mi fiondo al dojo alle 18.00. Il Maestro sta facendo gli esami ed è pieno di piccoli aikidoka che hanno appena ricevuto la cintura gialla. In particolare c'è una aikidoka di taglia minuscola, la cintura fa tre giri intorno alla sua vita, e ne è così fiera…

Allo stage siamo una quarantina e quasi perfettamente distribuiti tra cinture nere e bianche. Qui in Congo si usa che al saluto ci si metta in ordine di grado e che il più alto in grado dica delle cose al Maestro che io non riesco proprio a memorizzare. Per fortuna capito nel mezzo. Qui il riscaldamento csi fa in cerchio e generalmente è ricco di flessioni e addominali. Oggi invece il maestro inizia con un lungo e dolce stretching, in una sequenza logica ed estremamente piacevole per il mio corpo un po’ fuori allenamento.

Il maestro ha una bella faccia, si chiama qualcosa tipo Argille (cosa possibilissima nel panorama dei nomi congolesi fantasmagorici, tipo Jadore, çasuffit, Dieumerci e tanto altro che ho segnato in un file dedicato). Anche sulle tecniche entriamo in modo dolce, facendole prima senza cadute (quello che chiamano  l’éducatif) e poi passiamo alle techniques avec la chutte et les clés (cadute e chiusure).

Ammiro l'attenzione fortissima del maestro verso le cinture bianche, che accoppia alle nere dopo ogni spiegazione. Ci corregge senza mai essere diretto, ma usando metafore o facendo battute (tipico di qui e principale causa di incomprensione nella mia vita quotidiana). Ma quello che più m’incasina è che loro chiamano taesabaki, quello che per il resto del mondo è irimi-tenkan, ma ora lo so, quindi ok. 

(Sì, è un post un po' nerd...)
Un'altra grande vera differenza con i dojo ortodossi è che qui è ammesso arrivare in ritardo. Il maestro non ti rifiuterà. Ci sta anche questo. Un giorno mentre discutevo sulla puntualità, un congolese mi ha detto «Daniela, vous avez le montre, nous avons les temps » (voi avete l'orologio, noi abbiamo il tempo). E mi ha spiazzato.

Tra i praticanti c’è di tutto: alti, bassi pesi minimi e pesi massimi. Deve essere arrivato uno stock di uniformi da qualche paese arabo, molti di loro hanno keikogi con bandiere di colori di Giordania, Siria e Palestina. C'è chi pratica in maniera molto fluida e chi invece è un tronco d'albero. Chi va lentamente, chi si muove come un forsennato. C'è chi mi evita: la bianca con la cintura nera che ti corregge, non è una condizione che si può accettare in pochi secondi di pratica. E c'è chi invece "mi cerca" per praticare e sono soprattutto le (poche) ragazzine. Poi ci sono gli scettici, quelli costretti dal maestro a praticare con me, che preoccupati di farmi male fanno finta di attaccare, fanno piano, e quando si beccano un colpo (io che non faccio finta per niente) conquisto la loro fiducia. 

Tre ore di allenamento al giorno per tre giorni. Si suda da matti, non ci sono pause, non si beve, non si piscia. Ma questo un po' ovunque nel mondo aikidoka.

Noto in particolare due montagne sul tatami: una cintura nera e una arancione. La nera è lo Steven Seagal del Congo. La grande pancia nasconde la cintura a cui è appesa miracolosamente l’hakama. È magnifico vederlo lavorare con i piccoli, che cadono affidandosi al loro essere di caucciu e al rispetto che qui ti insegnano per la gerarchia. Fare e non discutere. Anche Montagna-cintura-arancione cade, ma lui "cade grande" come si dice in gergo e fa un casino della Madonna, perché qui « rumore forte è figo ».
L’entusiasmo sale e le tecniche si complicano di giorno in giorno e ogni mattina sono sempre più rotta e contenta.
L’ultimo giorno viene anche Pat, la mia amica 3 DAN con cui mi alleno di solito qui a Brazzaville. Pat, grande stazza, tanta morbidezza.

Le donne dello stage
E' domenica e il maestro ci invita dopo lo stage a condividere una delle cose a più alto valore sociale qui, le jus. Con jus si indica qualunque tipo di bevanda (alcolica e analcolica). Condividere o offrire un jus determina la chiusura di una giornata, di un evento, di un attività. Per le comunità con cui lavoro ha più valore ricevere un jus a fine attività, che un qualunque gadget di progetto, come una maglietta.
Il bar dove andiamo è di uno del gruppo di aikidoka. Ci vado con Pat e le altre due uniche donne dello stage. Il bar in realtà è il salone di una parrucchiera che ha un grande frigo con i jus. Ci installiamo sotto a un grande safoutier. Fa caldissimo, siamo disidratati, chiediamo tutti dell’acqua per cominciare, tranne Steven Seagal che ha due birre Beaufort ghiacciate sul tavolino. Le beve alla goccia in non più di 40 secondi; le bottiglie scompaiono nelle sue grandi mani. Al mignolo ha un grande anello d’oro, con una testa di leone in rilievo. Io chiacchiero con Pat, ma ho un occhio su di lui. Resisto a fargli una foto, troppo presto. 
Arachidi in plastica
L’omino delle arachidi passa, come in ogni punto-bar che si rispetti qui. Le trasporta nelle bacinelle di plastica, quelle dei panni per intenderci e le vende a bicchierate. Ne compriamo una vagonata e cominciamo a sgranocchiare. Qui le arachidi le fanno bollite e sono buonissime. C'è della fame seria, in poco tempo creiamo un tappeto di bucce sotto i nostri piedi, mentre si chiacchiera di tutto. 
Molte cose non le capisco, perché dette in lingala, ma non mi sento esclusa. Mentre parlo con Maitre Jac, a qualche sedia da me, mi accorgo che Steven Seagal sta aggeggiando con una pistola giocattolo. Dice cose che non capisco, la gira, fa finta di caricarla, ci soffia sulla canna. Il suo anello è in bella vista. Viene fuori che lavoro vicino al Parco Nouabale Ndoki nel nord del Paese e mi chiede se ci sono i gorilla. Dico di sì e lui dice che vorrebbe incontrarne uno per fronteggiarlo. 




Poi risolleva la pistola e dichiara a tutti che oggi la bevuta è gratis. Nessuno reagisce. Neanche il Maestro. Devono essere abituati. E io penso che se vedesse un gorilla davvero si cacherebbe nei pantaloni.
Continuiamo a sgranocchiare le arachidi, mentre a causa della rotazione terrestre, perdiamo l’ombra del nostro safoutier. Migriamo lentamente verso il muro per evitare quel sole allo zenit, tipico dell'equatore.
Le birre finalmente escono dal salone del coiffeur e arrivano belle ghiacciate.

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Back from my summer holidays I plan 10 days in Brazzaville, I have some activities to do. It will also be an opportunity to be with friends and colleagues in the capital, practice aikido and thus gradually re-enter life here and then head north to Ouesso.

Since it is a Friday, I call the aikido master of the dojo that is three minutes away from the office. Maître Jac tells me that there will be no class because starting in the afternoon there will be a workshop at the dojo closed to the zoo, (which is the other dojo I usually go for practice). We make an appointment there and, happy, I think that my return to the country, as well as the weekend, have taken a turn for the better! I turn the corner of the street and meet Senpai Flu, I point to his phone and I show him that I was calling him just then! Flu was my gateway to aikido here. I guess he's not coming, giving confused reasons (never headed here, eh!) I suspect the usual political problems between clubs, which is why now in Ouesso I no longer practise with adults, but teach kids and children.

I rush to the dojo at 6pm. The sensei is taking his exams and it's full of little aikidoka who have just received their yellow belts. In particular there is one tiny aikidoka, the belt goes three laps around her waist, and she is so proud of it....

At the workshop we are about forty and almost perfectly distributed between black and white belts. 
Here in Congo it is customary that at the "greeting" we stand in order of rank and that the highest in rank says things to the sensei which I really cannot memorise. Luckily I am in the middle. Here the warm-up is done in a circle and is generally full of push-ups and abdominals. Today, however, the Sensei starts with a long, gentle stretch, in a sequence that is logical and extremely pleasant for my somewhat out-of-training body.

The sensei has a nice face, his name is something like Argille ("clay", which is very possible in the panorama of phantasmagorical Congolese names, such as Jadore, çasuffit, Dieumerci and many others that I have marked in a dedicated file). Even on the techniques we enter in a gentle way, doing them first without falls (what they call l'éducatif) and then move on to techniques avec la chutte et les clés (falls and keys).
I admire the sensei's strong focus on the white belts, which he pairs with the black belts after each explanation. He corrects us without ever being direct, but using metaphors or making jokes (typical here and the main cause of misunderstanding in my daily life). But what messes me up the most is that they call taesabaki, what to the rest of the world is irimi-tenkan, but now I know, so OK.

(Yes, it's a bit of a nerdy post...)

Another big real difference with orthodox dojos is that here you are allowed to arrive late. The sensei will not refuse you. That's part of Congo as well. One day I was discussing punctuality with a Congolese man who replied 'Daniela, vous avez le montre, nous avons les temps' (you have the watch, we have the time). And I was taken aback.

Amongst the practitioners there is everything: little and tall people, low and heavyweights ones. A stock of uniforms must have arrived from some Arab country, many of them have keikogi with flags in the colours of Jordan, Syria and Palestine. Some practice very fluidly and some are tree trunks. Some go slowly, some move very fast. There are those who avoid me: the white girl with the black belt correcting you is not a condition that you can accept in a few seconds! And there are those who 'seek me out' to practice and they are mainly the (few) young girls. Then there are the sceptics, those forced by the sensei to practise with me, who, worried about hurting me. They just pretend to "attack", they take it easy, but when they get a hit by me (not pretending at all) I eventually win their trust.

Three hours of training a day for three days. We sweat like crazy, there are no breaks, no drinking, no breaks for pissing. But that's just about everywhere in the aikidoka world.

I notice in particular two "Mountains" on the tatami: a black belt and an orange belt. The black one is the Steven Seagal of the Congo. The big belly hides the belt from which the hakama miraculously hangs. It is magnificent to see him working with the little students, who fall relying on being made of rubber and the respect they teach you here for hierarchy: just do it and not argue. 
Even Montagna-belt-orange falls, but he 'falls big', as we say in the jargon, and makes it very noisy, because here 'loud noise is cool'.
The enthusiasm rises and the techniques get more complicated by the day, and every morning I feel more and more broken and happy.
On the last day, Pat also joined the workshop. Pat is my 3 DAN friend with whom I usually train here in Brazzaville. Pat: great size, lots of softness.

It's Sunday and the sensei invites us after the stage to share one of the things with the highest social value here: le jus. Jus means any kind of drink (alcoholic and non-alcoholic). Sharing or offering a jus brings closure to a day, an event, an activity. For the communities I work with, it is more valuable to receive a jus at the end of the activity than any project gadget, such as a T-shirt.
The bar we go to belongs to one of the aikidoka group. I go there with Pat and the only other two women from the stage. The bar is actually the salon of a hairdresser who has a big fridge with jus
We set up under a big safoutier. It is very hot, we are dehydrated, we all ask for water to start, except Steven Seagal who has two ice-cold Beaufort beers on the table. He drinks them in no more than 40 seconds; the bottles disappear in his big hands. On his little finger he has a large gold ring with a raised lion's head. I chat with Pat, but I have one eye on him. I resist taking a picture of him, too soon.

The "peanut man" passes by, as in any self-respecting bar here. He carries them in plastic bowls - the kind used for laundry - and sells them measuring the quantity by a glass. We buy a bucketful and start munching. Here they boil the peanuts and they are delicious. 
There is serious hunger, in no time we create a carpet of peelings under our feet, while chatting about everything. Many things I don't understand, because they are said in Lingala, but I don't feel left out. 
As I talk to Maitre Jac - a few chairs away - I notice that Steven Seagal is fidgeting with a toy gun. He says things I don't understand, turns it around, pretends to load it, blows on the barrel. His ring is in plain sight. It turns out that I work near Nouabale Ndoki Park in the north of the country and he asks me if there are gorillas there. I say yes and he says he would like to meet one to confront it.
Then he raises his gun and declares to everyone that today the drink is free. No one reacts. Not even the sensei. They must be used to it. And I think if he saw a gorilla he would really shit his trousers.

We continue munching on peanuts, while due to the earth's rotation, we lose the shadow of our safoutier. We slowly migrate towards the wall to avoid that zenith sun, typical of the equator.
The beers finally leave the coiffeur's salon and arrive nice and cold.


3 giu 2023

Personaggi: Adamu, il sarto/Adamu, le tailleur

TEXTE EN FRANÇAIS CI-DESSOUS

Ouesso, un sabato di maggio

Adamu, Ouesso
Quando entro nel suo atelier Adamu non c’è. Eppure mi aveva appena detto al telefono che sarei potuta passare a ritirare tutto.
Adamu sta molto attento ultimamente, soprattutto dopo che mi perso una canottiera che avevo portato a riparare. Dice di averla spazzata via quando ha fatto le pulizie. 
"Sarà capitata tra gli scarti dei vestiti preparati per la festa di fine Ramadan." 
Effettivamente i momenti più difficili per sarti di sono la settimana precedente l’8 marzo, in cui confezionano il pagne per le donne e prima della festa del sacrificio, di fine Ramadan. 
Sbagliai i tempi dunque. Per riparare al danno, la canottiera che mi ha confezionato ex-novo me l’ha regalata. 

Adamu l’ho conosciuto perché è il sarto che ha cucito l’abito del mio compleanno dell'anno scorso, regalo dell'equipe. Da allora è diventato uno dei miei sarti di riferimento.

Adamu è ciadiano e ha solo collaboratori uomini nel suo atelier, presumibilmente tutti della stessa famiglia. Ogni volta mi chiede di Ivan, se un giorno tornerà a Ouesso e se poi potrà portarlo con lui in Italia. Ivan lo aveva conosciuto a dicembre e da lui si era fatto fare camice e abiti.

Il suo scagnozzo mi dice di accomodarmi sul canapé di vellutino. Parla il meno possibile, come è abitudine qui. Il tempo minaccia pioggia, sono in bici e vorrei rientrare prima che sia buio perché non ho i fanali. 
Sono tutte condizioni per cominciare a innervosirmi. Ma è inutile, ormai lo so: tempo meteorologico e flusso di ore e giorni qui danno e hanno significati specifici, che forse non comprenderò mai a pieno. Ma questa cosa o me la faccio piacere o la subisco. 
Aspetto, sbircio il telefono, poi mi concentro sulla gente che passa. 
“Danielà!” e compare. E' Adamu, col suo grande sorriso e la cicatrice sulla guancia. Mi batte cinque, scocchia le dita, risplendente nella sua jallabia bianca. 
Mi dice che oggi dimostrò tra i 17 e i 18 anni. Deve essere la camicia verde a righe, un po’ modello scolare? Non risponde. Ovviamente non si parla del suo ritardo, perché per lui semplicemente non lo è. Mi mostra cosa ha fatto per me, c’è bisogno di una rifinitura. Mia nonna l’avrebbe chiamata "impuntura". 

Quando due donne entrano nel laboratorio, Adamu le saluta calorosamente, come fa con tutti. Nel frattempo osservo le sue mani affusolate, che scorrono sul tessuto della tenda che sta sistemando. Come fa ad andare così dritto con la macchina?

La donna che è appena entrata mi saluta. Io educatamente rispondo. Mi chiede se la riconosco. Io ho difficoltà in effetti. Ormai ci conosciamo un po’ tutti a Ouesso e con la storia delle parrucche e dei diversi luoghi che frequento, perdo le fisionomie... Dice che abbiamo fatto le pizze insieme a Bomassa. Ricordo!
Poi lei chiede del ragazzo che le doveva ultimare il vestito. Adamu dice che è tardi e che "Adamu è già andato via". 
Un dubbio mi attanaglia: chi è Adamu allora? In Congo la questione dei nomi è affare delicato. Mi dice che quell'Adamu è “son petit”. Sono figli di madre e padri diversi, abbiamo solo i “parents en commune”. Sono seriamente confusaF, parents in francese vuole proprio dire genitori. Forse si accorge della mia confusione e mi dice che in Chad comunque non puoi sbagliarti, “Ci chiamiamo tutti Adam o Mohamed. Quindi se incontri qualcuno per strada e lo chiami Adam, se non si gira, chiamalo Mohammed e si girerà”.
Annuisco.
Domani ti porto un paio di short da copiare con la stoffa che è rimasta gli dico. 
“Je serai là, inchallah”, reagisce.
Quando ho inforcato la bicicletta Adamu è dietro di me e ha un lecca lecca rosso che spicca sul nero lucido della sua pelle. Ancora quella cicatrice in evidenza. 
Gli dico che è meglio evitare i lecca lecca, rovinano i denti. 
Mi guarda come se fosse la prima volta che sente questa cosa. 
“Ok” dice “Finisco questo e poi non ne mangio più, Daniela. Grazie del consiglio”.

Fosse tutto così semplice.


Ouesso, un samedi de mai

Lorsque j'entre dans son atelier, Adamu n'est pas là. Pourtant, il venait de me dire au téléphone que je pouvais passer tout récupérer.
Adamu a été très prudent ces derniers temps, surtout après que j'ai perdu un débardeur que j'avais apporté pour le faire réparer. Il dit qu'il l'a balayé en faisant le ménage. 
"Il a dû tomber parmi les restes de vêtements préparés pour la fête de fin de ramadan". 
En effet, les périodes les plus difficiles pour les tailleurs sont la semaine précédant le 8 mars, lorsqu'ils confectionnent le pagne pour les femmes, et avant la fête du sacrifice, à la fin du ramadan. 
Mauvais timing donc. Pour réparer les dégâts, le gilet qu'il m'a fabriqué de toutes pièces, il me l'a offert en cadeau. 

J'ai rencontré Adamu parce que c'est le tailleur qui a cousu mon costume d'anniversaire l'année dernière, un cadeau de l'équipe. Depuis, il est devenu l'un de mes tailleurs de référence.

Adamu est tchadien et n'a que des collaborateurs masculins dans son atelier, vraisemblablement tous issus de la même famille. Chaque fois, il me demande des nouvelles d'Ivan, s'il reviendra un jour à Ouesso et s'il peut l'emmener avec lui en Italie. Ivan l'avait rencontré en décembre et s'était fait confectionner des chemises et des costumes par lui.

Son acolyte me dit de prendre place sur le canapé de velours. Il parle le moins possible, comme c'est la coutume ici. Le temps menace de pleuvoir, je suis sur mon vélo et j'aimerais rentrer avant la nuit car je n'ai pas de phares. Ce sont toutes les conditions pour commencer à s'énerver. Mais c'est inutile, je le sais maintenant : la méteo et le déroulement des heures et des jours ici donnent et ont des significations spécifiques, que je ne comprendrai peut-être jamais complètement. Mais soit j'en profite, soit je le subis. 
J'attends, jette un coup d'œil à mon téléphone, puis me concentre sur les gens qui passent. 
"Danielà !" et apparaît. C'est Adamu, avec son grand sourire et sa cicatrice sur la joue. Il me fait un high-five en claquant des doigts, resplendissant dans sa jallabia blanche. 
Il me dit que j'ai l'air d'avoir entre 17 et 18 ans aujourd'hui. Ce doit être la chemise verte à rayures, un peu le modèle de l'écolier ? Il ne répond pas. Bien sûr, on ne metionne pa pas son retard, car pour lui, ce n'est tout simplement pas le cas. Il me montre ce qu'il a fait pour moi, il a besoin d'une coupe. Ma grand-mère aurait appelé cela de la "couture". 

Lorsque deux femmes entrent dans l'atelier, Adamu les salue chaleureusement, comme il le fait avec tout le monde. Pendant ce temps, j'observe ses mains effilées qui courent sur le tissu du rideau qu'il est en train de réparer. Comment peut-il aller aussi droit avec la voiture ?

La femme qui vient d'entrer me salue. Je lui réponds poliment. Elle me demande si je la reconnais. En fait, j'ai du mal. A présent, nous nous connaissons tous un peu à Ouesso et avec l'histoire des perruques et les différents lieux que je fréquente, je perds les physionomies.... Il dit que nous avons fait des pizzas ensemble à Bomassa. Je m'en souviens !
Puis elle demande des nouvelles du garçon qui devait finir sa robe. Adamu répond qu'il est tard et qu' "Adamu est déjà parti ". 
Un doute m'envahit : qui est Adamu alors ? Au Congo, la question des noms est délicate. Il me dit qu'Adamu est "son petit" et qu'ils partagent le mème nom. Ce sont des enfants de mères et de pères différents, "nous n'avons que des parents en commune". Je suis sérieusement troublée, parents en français signifie vraiment mère et pére è ma connaissance. Il remarque peut-être ma confusion et me dit que de toute façon, au Tchad, on ne peut pas se tromper : " On s'appelle tous Adam ou Mohamed. Donc si tu rencontres quelqu'un dans la rue et que tu l'appelles Adam, s'il ne se retourne pas, appelle-le Mohammed et il se retournera'.
J'acquiesce.
'Demain, je t'apporterai un short à copier avec le tissu qui reste', lui dis-je. 
'Je serai là, inchallah', me répond-il.
Lorsque j'ai enfourché le vélo, Adamu est derrière moi et a une sucette rouge qui se détache sur le noir brillant de sa peau. La cicatrice est encore visible. 
Je lui dis qu'il vaut mieux éviter les sucettes, elles abîment les dents. 
Il me regarde comme si c'était la première fois qu'il entendait cela. 
"D'accord, dit-il, je vais finir ça et après je ne mangerai plus, Daniela. Merci pour le conseil."

Si seulement tout était aussi simple.

24 mag 2023

Johannesburg, part 1: quando sei dove volevi essere

ENGLISH BELOW

"Come mi va" è un po' che non lo dico.
Tante cose, ma oggi c'è una cosa fresca fresca che mi preme condividere, prima che passi troppo tempo e mi sfuggano immagini e pensieri, che entrano, mi attraversano e poi prendono una forma che ha un po' il mio marchio.
A fine Aprile sono andata a Johannesburg per partecipare ad un congresso. Con me è venuta Jenny, una ragazza di Kinshasa che fa parte dello staff di progetto da due anni e lì ci siamo trovati con i colleghi dell'altro Congo e del Madagascar per presentare i nostri lavori al primo congresso dell'associazione africana di marketing sociale.

Notte del 27 Aprile 2023, Johannesburg
Studio e cerco di capire come orientarmi. Pare che domani nessuno dei miei colleghi avrà voglia di uscire presto dall’hotel. Io invece sì, vengo fuori da un periodo complicato in Congo e abbiamo fatto qui 4 giorni di congresso e di questa città non ho visto ancora nulla. Metto in "preferiti" un sacco di luoghi trovati su google, sapendo che tanto mi perderò a causa della nullità del mio senso dell’orientamento.
La meta è tuttavia SOWETO, il quartiere dove ha abitato Nelson Mandela prima della sua prigionia ed è una meta che attendo da anni.

28 Aprile 2023, Johannesburg
È successo: quando sei dove volevi essere.
Adesso, nella mia camera a Johannesburg, al sesto piano di un albergo abbastanza anonimo non lontano dall’Universita di Wits che ci ha ospitato per il Congresso e con Nkosi Sikelel' iAfrika (“God bless Africa”, l’inno nazionale sudafricano) in loop.
Cerco di mettere insieme questa giornata che dura da ieri, quando tra cellulare e guide cartacee, comprate nelle piccole librerie che occupano questa città, ho cercato di costruire il mio itinerario.

Taxi-uber. Alla fine, stamani non sono partita da sola. C’è Jenny con me. Da dove siamo noi a Soweto sono 30 minuti di macchina. Le strade a Johannesburg sono grandi e larghe, nulla da invidiare alle autostrade dell'occidente. Man mano che avanziamo, il paesaggio diventa sempre più vuoto, meno mall, meno negozi di macchine e grandi marche. Le case sono più modeste “E' lontano Soweto, Daniela, regardes comment ça a changé l’ambiance”, mi dice Jenny col naso attaccato al finestrino. Ci sono grandi scritte sui muri che non capisco, forse è zulù, forse xhosa o le altre tante lingue di questo posto. Jenny mi fa notare che qui a Johannesburg c’è molta gente che fuma per strada rispetto al Congo. E’ vero. Jenny con le sue considerazioni mi distrae da quella necessità continua di trovare qualcosa di riconoscibile nel mio vissuto. Mi succede sempre quando arrivo in un posto nuovo, quasi a trovare una sponda cui aggrapparmi per non sentirmi persa. Intanto fuori si iniziano a vedere agglomerati di case, sono tutte dalla stessa altezza, sparse in campi non coltivati e secchi. C’è abbastanza gente che popola questo posto, chi sale sugli autobus e chi va a piedi, spariscono i macchinoni e compaiono auto più modeste. E' tutto più modesto qui, Soweto da questa impressione.

SO: South WE: West TO: Township

Ecco cosa significa questo acronimo. Ce lo spiega la guida del museo Hector Pieterson, che è il nome dello studente che fu il primo ad essere ucciso, durante la manifestazione degli studenti delle scuole di Soweto. Volevano l’abolizione della lingua afrikaans nell'insegnamento, a favore di quelle locali. Hector fu il primo di centinaia a morire, dice la guida, portandoci nella prima "sala" del museo, che poi è un giardino interno pieno di targhe per terra, con i nomi e la data del 16 giugno 1976; su alcune invece c'è scritto unknown e indicano i corpi che il governo dell’apartheid non ha mai restituito alle famiglie.
Nel museo non si possono fare foto. Ce ne sono moltissime, tuttavia. Si sentono le voci narranti dei video, che si sovrappongono a quella della nostra guida. E’ un giovane ragazzo che mostra fierezza nel parlare del suo popolo, cita suo nonno, quando ad un certo punto di interrompe per chiedere a Jenny “Are you ok, my sister?”. 
Ci racconta che i non-white per uscire da Soweto e andare verso la città dovevano avere due pass, uno che si chiamava il “ Dom-pass” (domestic pass - detto anche pass degli idioti) che ti permetteva di uscire e un altro che si chiamava “il pass speciale” che ti dava la durata dell’uscita. La guida racconta che tra i vari motivi di uscita c'era quello di andare a farsi una foto di famiglia - per un certo periodo avere una macchina fotografica era vietato. Nel video che abbiamo davanti scorrono proprio delle foto di famiglia: ci sono fratelli vestiti di tutto punto e con baffi sottili, famiglie con i bambini in fila dal più alto al più basso o ancora uomini a torso nudo con muscoli in tensione. Se ti beccavano fuori dal periodo di permesso, ti prendevi da 3 mesi a 6 anni di prigione. 
Per Jenny è la prima volta per qualunque cosa qui, incluso ascoltare il racconto di questa umanità crudele e così crolla per un attimo. Eppure, mi dico, che lei viene dalla Repubblica Democratica del Congo, un posto che non vede pace da 60 anni. Più tardi mi dirà che è diverso.

La visita dura un’ora. Sono esposte le armi che hanno ucciso gli studenti, le foto scattate che furono nascoste per paura della censura o della distruzione e i cartelli usati dai ragazzi nella protesta. In uno c’è scritto “Who is next?” Riferendosi a Hector, morto per primo.
Quello che colpisce me e Jenny sono i sorrisi e le braccia alzate dei ragazzi nelle foto.

Ma è forse proprio la ribellione pacifica che spinge ancora di più la crudeltà di chi si appropria del diritto di uccidere?

La strada che porta dal Museo di Hector alla casa di Mandela non deve essere lunga, secondo quanto ci dice la guida. Tutto dritto, poi girare a sinistra al semaforo e passare davanti a due scuole, la prima è quella dove è stato ucciso Hector, poi continuare avanti e poi sulla sinistra c’è la casa di Mandela e più avanti quella di Desmond Tutu. Ci scappa un sorriso quando realizziamo che lui e Mandela, due nobel per la pace, vivevano nella stessa strada. Sappiamo che è una risata liberatoria dopo quello che abbiamo visto. Ci perdiamo nel quartiere. Scopro che Jenny è peggio di me in quanto a orientamento. Saliamo per una strada con le case fatte tutte di mattoni rossi. E’ tutto molto semplice e quotidiano. Una donna che sta stendendo i panni ci dice che siamo nella direzione sbagliata, che per andare a casa di Mandela bisogna tornare indietro. Così passiamo per altre vie. C’è un caldo secco, il cielo è azzurrissimo, ci sono due operai che bevono una una birra seduti sul marciapiede, i bambini che escono da scuola in divisa blu, i pulmini bianchi che fanno scendere donne con lunghe gonne e sacchi della spesa, così come un venditore ambulante che ha berretti cappelli colorati con scritto Soweto. Ci dicono tutti buongiorno in maniera discreta. Ho come la sensazione che quel posto non sia cambiato molto dai tempi di Mandela.
La casa di Mandela è piena di roba, la sua roba, quella che è rimasta di Winnie, dei suoi figli, i documenti, gli attestati, le foto, i diari, i manifesti, i riconoscimenti, le scarpe, le banconote dei vari paesi con le dediche di chi lo ha supportato nella prigionia. Jenny trova anche quella della Repubblica Democratica del Congo "Quella del Congo Brazzaville non c'è!" scriverà ai nostri colleghi in un messaggio whatsapp. In una teca ci sono le lettre che Mandela scriveva dal carcere, ne poteva scrivere due l’anno, così come le visite, 2 di mezzora l’una. Un’ora l’anno per 27 anni. 
Tutto è sistemato senza troppo criterio. Mi colpisce as esempio una foto di lui che copre il muro della doccia. Nel piccolo giardino c'è l’albero della melaleuca, alle radici del quale sono stati interrati i cordoni ombelicali dei tre figli. Nelle teche, le scarpe. Sui muri, i segni dei colpi di arma da fuoco. A terra, il segno del muro ormai divelto, costruito per protezione. 
Entriamo nella sua camera, ma il letto è quello del figlio, il suo fu bruciato durante un incendio. E poi ci sono le tante foto di lui da giovane fino al momento della prigionia. L'ultima è di lui col cane.

La visita alla casa è meno impattante del Museo Hector Pieterson. C’è più vita che morte qui, anche se non è il museo che mi aspettavo: tanti oggetti e altrettante informazioni tutte insieme, forse troppe rispetto all’idea di un Uomo che nel mio immaginario viveva con poco. Ma lo scopo è evidentemente quello di condividere tutto quello che resta. 
C’è molto andirivieni di turisti, le foto sono ammesse e la gente non si limita nei selfie. Jenny mi dice più volte di essere contenta di pestare il suolo in cui Mandela ha camminato ed io provo la stessa sensazione. Me lo immagino nel piccolo giardino a leggere quei libri che lo hanno reso una delle migliori persone al mondo oppure a discutere con Winnie, che non seppe reggere alla potenza della scelta del perdono di suo marito e se ne separò per gettarsi nelle braccia di Samora Michel, un altro uomo importante.
Girato l’angolo di casa di Mandela, ecco l’unica parte turistica del quartiere: collane, vestiti e cesti coloratissimi. Le torri di Soweto si vedono a distanza, qualche bar straripante di turisti, murales e gente che cerca il modo di fare qualche soldo con chi è venuto da lontano.
Prendiamo qualcosa.

La sera Jenny dice di essere contenta della giornata, anche se è turbata e che non si aspettava tutto questo. Non indago, mi piace ascoltarla senza interferire. Le dico solo di prepararsi che domenica forse sarà ancora più dura, quando andremo al museo dell’Apartheid.
Mi dice di essere pronta. 
Aggiunge che le piace vedere che questo è un popolo che ha reagito, dopo aver vissuto quello che ha vissuto.  Dice di avvertire che qui la rivoluzione è servita ad ottenre i propri diritti e che anche lei viene da un paese difficile e che anche il suo popolo si batte a modo suo e solo che...“solo che noi un Mandela non ce l’abbiamo avuto".

                                                                                                                                [...to be continued]





Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone veniva ucciso dalla mafia. Lo considerò un piccolo Mandela.

E qui, un po' di storia su questo Inno Nkosi Sikelel' iAfrika 

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'How I feel' hasn't been said in a while.
So many things, but today there is something that I would like to share, before too much time passes and I miss images and thoughts, which come in, pass through me and then take a shape that has a bit of my stamp on it.

At the end of April I went to Johannesburg to attend a conference. With me came Jenny, a girl from Kinshasa who has been part of the project staff for two years, and there we met up with colleagues from the other Congo and Madagascar to present our work at the first congress of the African Social Marketing Association.

Night of 27 April 2023, Johannesburg
I study and try to figure out my bearings. It seems that none of my colleagues will feel like leaving the hotel early tomorrow. But I do, I'm coming out of a complicated time in Congo and we've had four days of congress here and I haven't seen anything of this city yet. I put in 'favorites'' a lot of places found on google, knowing that I will get lost due to the nullity of my sense of direction.
However, the destination is SOWETO, the neighborhood where Nelson Mandela lived before his imprisonment, and it is a destination I have been looking forward to for years.

28 April 2023, Johannesburg
It has happened: when you are where you wanted to be.
Now, in my room in Johannesburg, on the sixth floor of a fairly anonymous hotel not far from the University of Wits that hosted us for the Congress and with Nkosi Sikelel' iAfrika ('God bless Africa', the South African national anthem) on loop.
I've been trying to piece together this day since yesterday, when between mobile phone and paper guides, bought in the small bookshops that occupy this city, I tried to construct my itinerary.

Taxi-uber. In the end, I didn't set off alone this morning. Jenny is with me. From where we are to Soweto is a 30-minute drive. The roads in Johannesburg are big and wide, nothing to envy the highways of the West. As we progress, the landscape becomes emptier and emptier, fewer malls, fewer car shops and big brands. The houses are more modest. 'It's a long way to Soweto, Daniela, regardes comment ça a changé l'ambiance,' Jenny tells me with her nose stuck to the window. There is big writing on the walls that I don't understand, maybe it's Zulu, maybe Xhosa or the other many languages of this place. Jenny points out to me that here in Johannesburg there are more people smoking in the streets than in Congo. This is true. Jenny with her remarks distracts me from that constant need to find something recognisable in my experience. It always happens to me when I arrive in a new place, almost as if to find a shore to cling to in order not to feel lost. Meanwhile outside you start to see clusters of houses, they are all at the same height, scattered in uncultivated, dry fields. Quite a few people populate this place, some get on buses and some walk, the big cars disappear and more modest cars appear. Everything is more modest here, Soweto gives that impression.

SO: South WE: West TO: Township

That is what this acronym means. The museum guide Hector Pieterson explains it to us, which is the name of the student who was the first to be killed, during the Soweto school students' demonstration. They wanted the abolition of the Afrikaans language in education, in favour of local ones. Hector was the first of hundreds to die, says the guide, leading us into the first 'room' of the museum, which is then an indoor garden full of plaques on the ground, with names and the date 16 June 1976; on some, however, it says unknown and indicates the bodies that the apartheid government never returned to their families.
No photos can be taken in the museum. There are plenty, however. You can hear the voices narrating the videos, overlapping with that of our guide. He is a young boy who shows pride in talking about his people, quotes his grandfather, when at one point he interrupts to ask Jenny, "Are you OK, my sister?" 
He tells us that in order to get out of Soweto and into the city, non-whites had to have two passes, one called the 'Dom-pass' (domestic pass - also known as the 'idiot pass') which allowed you to get out, and another called 'the special pass' which gave you the length of time you could get out. The guide tells us that one of the reasons for going out was to go for a family photo - for a certain period having a camera was forbidden. In the video in front of us, there are family photos: there are brothers dressed up with thin moustaches, families with children lined up from the tallest to the shortest, or shirtless men with tense muscles. If you were caught outside the leave period, you got three months to six years in prison. 
For Jenny it is the first time for anything here, including hearing the tale of this cruel humanity, and so she breaks down for a moment. Yet, I tell myself, she is from the Democratic Republic of Congo, a place that has not seen peace for 60 years. Later she tells me it is different.

The visit lasts an hour. On display are the weapons that killed the students, the photos taken that were hidden for fear of censorship or destruction, and the placards used by the boys in the protest. One reads "Who is next?" Referring to Hector, who died first.
What strikes me and Jenny are the smiles and raised arms of the boys in the photos.

But is it the peaceful rebellion that pushes the cruelty of those who take the right to kill even further?

The road from the Hector Museum to Mandela's house need not be a long one, according to the guide. All straight ahead, then turn left at the traffic lights and pass in front of two schools, the first is the one where Hector was killed, then continue ahead and then on the left is Mandela's house and further on Desmond Tutu's house. A smile escapes us when we realise that he and Mandela, two Nobel Peace Prize winners, lived on the same street. We know it is a liberating laugh after what we have seen. 
We get lost in the neighbourhood. I discover that Jenny is worse at orientation than I am. We walk up a street with the houses all made of red brick. It's all very simple and everyday. 
A woman who is hanging out the laundry tells us that we are in the wrong direction, that to go to Mandela's house we have to go back. So we go by other routes. It is a dry heat, the sky is blue, there are two workers drinking a beer sitting on the pavement, children coming out of school in blue uniforms, white minibuses dropping off women with long skirts and shopping bags, as well as a street vendor who has colourful hats with Soweto written on them. They all say good morning discreetly. I get the feeling that the place has not changed much since Mandela's time.

Mandela's house is full of stuff, his stuff, what's left of Winnie, of his children, documents, certificates, photos, diaries, posters, awards, shoes, banknotes from various countries with dedications from those who supported him in his imprisonment. Jenny also finds the one from the Democratic Republic of Congo 'The one from Congo Brazzaville is not there!' she writes to our colleagues in a whatsapp message. In a display case are the letters Mandela wrote from prison, he could write two a year, as well as the visits, two of half an hour each. One hour a year for 27 years. 
Everything is arranged without too much criterion. A photo of him covering the shower wall, as an example. In the small garden there is the melaleuca tree, at the roots of which the umbilical cords of the three children have been buried. In the cases, there are shoes. On the walls, there are the marks of gunshots. On the floor, there is the sign of the now-dismantled wall, built for protection. 
We enter his bedroom, but the bed is his son's, his was burnt during a fire. And then there are the many photos of him as a young man up to the time of his imprisonment. The last one is of him with his dog.

A visit to the house is less impactful than the Hector Pieterson Museum. There is more life than death here, although it is not the museum I expected: so many objects and so much information all at once, perhaps too much compared to the idea of a Man who in my imagination lived with little. But the aim is evidently to share all that remains. 
There is a lot of coming and going of tourists, photos are allowed and people are not limited to selfies. Jenny tells me several times that she is happy to step on the ground where Mandela walked and I feel the same. I imagine him in the small garden reading those books that made him one of the best people in the world, or arguing with Winnie, who could not handle the power of her husband's choice of forgiveness and parted with him to throw herself into the arms of Samora Michel, another important man.
Around the corner from Mandela's house, here is the only touristy part of the neighbourhood: colourful necklaces, clothes and baskets. The towers of Soweto can be seen from a distance, a few bars overflowing with tourists, murals and people looking for ways to make some money with those who have come from afar.
We grab something.

In the evening Jenny says she is happy with the day, even if she is upset and that she did not expect all this. I don't investigate, I like to listen to her without interfering. I just tell her to get ready that Sunday may be even harder when we go to the Apartheid museum.
She tells me she is ready. 
She adds that she likes to see that this is a people who have reacted, having experienced what they have experienced.  She says that she feels that the revolution here was about getting her rights and that she too comes from a difficult country and that her people also fight back in their own way... 'only we didn't have a Mandela'.

                                                                                                                                [...to be continued]





On 23 May 1992 Giovanni Falcone was killed by the Mafia. I consider him a little Mandela.

And here, a little history on this Nkosi Sikelel' iAfrika anthem 


18 apr 2023

Personaggi - Tu comprends un peu?

 ENGLISH BELOW

Lei è Grace, sta a Ouesso, ma non è di Ouesso.
Lavorava a La virgule quando l’ho incontrata la prima volta. La virgule è il bar che sta sulla stessa strada di Marius che fa lo shawarma, della Maman da cui compro la verdura, dei due macellai da cui mi rifornisco, uno per il montone e uno per il manzo e del malewa dei maliani che fanno il riso alla senegalese. E' anche la strada della piazza col grande albero di safou dove la domenica si va a bere e dei camerunensi che vendono gli articoli per l'ufficio, gli ivoriani che fanno i sarti e uno dei tre Salem (i supermercati dei mauritani). 
La virgule ha sempre la musica a tutto volume, impossibile scambiare due parole se ti fermi a prendere una birra. La prima volta che ho visto Grace è stato proprio lì, una sera in cui aspettavamo il riso senegalese. Al malewa fanno anche da asporto, ti porti i contenitori e te ne torni a casa col cibo da condividere in veranda con amici e hai fatto un sabato sera simpatico. Quel giorno con me c’erano il mio amico belga e un tedesco, di passaggio da Ouesso. Il tedesco un po' punkabbestia tutto coperto di tatuaggi colpisce molto Grace. Consumiamo una birra, il tedesco due. Grace passa il tempo con noi e mi chiede di pagargliene una. Funziona così qui, paghi la birra a chi lavora nei posti in cui sei andato a bere. Quando il riso è pronto, ci salutiamo "A la prochaine, Vanessa”. E’ così che Grace mi chiamerà da quel momento in poi, tutte le volte che mi vedrà passare davanti a La virgule.

La rivedrò un'altra volta in quel bar, quando con un collega beninese in missione a Ouesso decidiamo di chiudere la serata con una birra, dopo una cena a parlare di stregoneria e voodoos. Grace ci accoglie calorosamente, “Vanessa, comment vas-tu?” Neanche questa volta la correggo, non riuscirebbe comunque a sentire la risposta, visto il volume altissimo della musica. Troviamo un tavolo un po' lontano dalla cassa. Grace non smette di parlare, è contenta di avere due persone nuove al bar, invece dei soliti clienti fastidiosi, dice. Le offro una birra. Mi dice che vuole lasciare quel bar, aprirsene uno tutto suo e perché no? Lasciare anche il Congo. Mi chiede se può seguirmi in Italia, magari potrebbe restare dai miei o dal mio compagno. Non fa niente se io resto in Congo, lei se la caverebbe con loro. La osservo interagire col mio collega. Lui le dice di essere camerunese, lei gli risponde che non è possibile con quell'inconfondibile accento beninese. Non so se è perché abbiamo bevuto o se è la musica alta, ma mi sembra un dialogo surreale. Grace quando parla interrompe di colpo la frase per dire “Tu comprends un peu?” ...come a cercare conferme, poi in realtà non ascolta la risposta e continua il suo discorso. Lo fa innumerevoli volte, tanto che mi ci appassiono.
Verso l’una, quando ormai al bar ci siamo solo noi, decidiamo di rientrare.
“Au revoir, les amis. Eh, Vanessa! Ne m’oublie pas ! » E come potrei dimenticarla?
Girato l’angolo, mi volto verso il collega e gli dico “Tu comprends un peu?” e scoppiamo in una risata sincrona. Diventa il refrain della serata.

Per un po' di mesi Grace non l’ho più vista a La virgule. Quando una volta chiesi di lei mi dissero che era a Brazzville per un problema di famiglia. La chiamai e mi disse che sarebbe tornata presto. Tra presto e tardi in Congo non c’è differenza. Lo spazio e il tempo sono solo proiezioni. Se ti dicono “Je suis en route, j’arrive" o anche "Sono a zero metri" vuol dire che sono appena partiti, non importa da dove, tanto c'è tempo...e inoltre qui se ti danno appuntamento alle 10, fino alle 10:59 sei in orario.

Così passano i mesi e un giorno Grace mi telefona. Mi dice che è a Ouesso e che non lavora più a La virgule, ma accanto a Ocean du Nord, la stazione dei bus. Le dico che andrò a trovarla. Non so come la prenderà, ma  approfitto anche per dirle che il mio nome in realtà è Daniela. “Ah, ok, c’est bon. Pas de problème”. Ma come "non c'è problema"??

Così domenica l’ho chiamata. Mi dice di aspettarla davanti a Ocean du Nord.
Scende da una macchina col suo sorriso entusiasta. Ha cambiato parrucca, adesso è riccia. Mi dice che mi trova bene e che ho preso qualche chilo, dall'ultima volta. Le chiedo “Quanti?” mi dice “Il giusto per renderti più bella”.

Grace mi mostra il suo nuovo bar. DG Willie, si chiama così. Si è messa in proprio, come avrebbe voluto. 
Ci sediamo e passiamo un’ora insieme. Stavolta è lei a offrire. Discute con qualche cliente che non vuole pagare poi è tutta mia. Il bar è una stanza di 30 metri quadri con un bancone, un frigo e le casse di birra impilate. I clienti di oggi sono quelli che bevono la birra della domenica mattina, per smaltire la sbornia che si trascinano dietro dal venerdì.
Ci divertiamo a progettare cosa quel bar può diventare per occupare sia quei muri vuoti sia la gente che lo frequenta. Ipotizziamo foto, jam sessions e corsi vari.

Ci diamo così appuntamento a maggio - io partirò la prossima settimana per il Sud Africa - decidiamo per un ritrovo al bar con un corso di cucina italiana, tanto per cominciare. “Il faut que je me prépare pour l'Italie, Danielle!»

Beh, Danielle è già meglio di Vanessa. 
"Tu comprends un peu?"

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This is Grace, she is from Ouesso, but she is not from Ouesso.

She was working at La virgule when I first met her. La virgule is the bar that is on the same street as Marius who makes shawarma, the Madam from whom I buy vegetables, the two butchers from whom I get my supplies, one for mutton and one for beef, and the malewa of the Malians who make Senegalese-style rice. It is also the street of the square with the big safou tree where people go to drink on Sundays, and of the Cameroonians who sell office supplies, the Ivorians who are tailors and one of the three Salem (the supermarkets of the Mauritanians).

La virgule always has music blaring, impossible to exchange a few words if you stop for a beer. The first time I saw Grace was right there, one evening when we were waiting for Senegalese rice. At the malewa they also do take-away, you bring your own containers and go home with food to share on the veranda with friends and you have had a nice Saturday night. With me that day were my Belgian friend and a German, temporarily in Ouesso. The somewhat punkish German all covered in tattoos impresses Grace a lot. We had one beer, the German two. Grace passed the time with us and asked me to pay her for one. That's how it works here, you pay for the beer at the places you go to drink. When the rice was ready we said goodbye “A la prochaine, Vanessa”. That's what Grace will call me from then on, every time she sees me walk past la virgule.

I saw her again one evening at the same bar, when with a Beninese colleague on a mission in Ouesso we decided to end the evening with a beer, after a dinner talking about witchcraft and voodoo. Grace greeted us warmly, "Vanessa, comment vas-tu?" I didn't correct her that time either, she would have not be able to hear the answer anyway, given the loud volume of the music. We found a table a little far from the cash desk. Grace didn't stop talking, she was happy to have two new people at the bar instead of the usual annoying customers, she said. I offered her a beer. She told me she wants to leave that bar, open her own and why not? Leave the Congo too. She asked if she could follow me to Italy, maybe stay with my parents or my partner. It doesn't matter if I stay in Congo, she will manage with them. I watched her interact with my colleague. He told her he was Cameroonian; she replied that it was not possible with that unmistakable Beninese accent. I didn't know if it was because we drank a lot or if it was the loud music, but it seemed like a surreal dialogue to me. I realize that when Grace spoke, she suddenly interrupted her sentence to say "Tu comprends un peu?" ...as if seeking confirmation, then she didn't actually listen to the answer and continued her speech. She did this countless times, so much so that I got hooked.

Around one o'clock, when by then there are only us at the bar, we decided to go back in.
"Au revoir, les amis. Eh, Vanessa! Ne m'oublie pas ! " And how could I?
Turning the corner, I turned to my colleague and say "Tu comprends un peu?" and we burst into synchronous laughter. It became the refrain of the evening.

For a few months Grace was no longer seen at the virgule. When I once asked for her, I was told she was in Brazzville for a family matter. I called her and she told me she would be back soon. Between early and late in Congo there is no difference. Space and time are just projections. If they tell you "Je suis en route, j'arrive" or even "I'm at zero meter" it means they have just left, it doesn't matter where, there is time anyway...here if they give you an appointment at 10 o'clock, until 10:59 you are on time.

So, months pass and one day Grace phoned me. She told me that she was in Ouesso and that she no longer works at La virgule, but next to Ocean du Nord, the bus station. I told her I would have gone and see her. Additionally, I didn't know how she would have taken it, but I also took the opportunity to tell her that my name was Daniela. "Ah, ok, c'est bon. Pas de probléme". What?? Was is it my problem, at the end??

So, this morning I called her. She told me to wait for her in front of Ocean du Nord.

She gets out of a car with her enthusiastic smile. She has changed her wig, it's curly now. She tells me that I look good and that I have gained a few kilos since last time. I ask her "How many?" she tells me "Just enough to make you more beautiful".

Grace shows me her new bar. DG Willie, that's its name. She has set up on her own, as she would have wished. We sit down and spend an hour together. This time she is the one offering. She argues with a few customers who don't want to pay then she's all mine. The bar is a 30 square meter room with a counter, a fridge and stacked cases of beer. Today's customers are those who drink beer on Sunday mornings to work off the hangover they've been dragging around since Friday.

We have fun planning what that bar can become to occupy both those empty walls and the people who frequent it. We hypothesize photo exhibition, jam sessions and various courses.

So, we make an appointment in May - I am leaving next week for South Africa - we decide on a get-together at the bar with an Italian cooking class to start with. "Il faut que je me prépare pour l'Italie, Danielle!"

Well, Danielle is already better than Vanessa.
Tu comprends un peu?