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"Come mi va" è un po' che non lo dico.
Tante cose, ma oggi c'è una cosa fresca fresca che mi preme condividere, prima che passi troppo tempo e mi sfuggano immagini e pensieri, che entrano, mi attraversano e poi prendono una forma che ha un po' il mio marchio.
A fine Aprile sono andata a Johannesburg per partecipare ad un congresso. Con me è venuta Jenny, una ragazza di Kinshasa che fa parte dello staff di progetto da due anni e lì ci siamo trovati con i colleghi dell'altro Congo e del Madagascar per presentare i nostri lavori al primo congresso dell'associazione africana di marketing sociale.
Notte del 27 Aprile 2023, Johannesburg
Studio e cerco di capire come orientarmi. Pare che domani nessuno dei miei colleghi avrà voglia di uscire presto dall’hotel. Io invece sì, vengo fuori da un periodo complicato in Congo e abbiamo fatto qui 4 giorni di congresso e di questa città non ho visto ancora nulla. Metto in "preferiti" un sacco di luoghi trovati su google, sapendo che tanto mi perderò a causa della nullità del mio senso dell’orientamento.
La meta è tuttavia SOWETO, il quartiere dove ha abitato Nelson Mandela prima della sua prigionia ed è una meta che attendo da anni.
28 Aprile 2023, Johannesburg
È successo: quando sei dove volevi essere.
Adesso, nella mia camera a Johannesburg, al sesto piano di un albergo abbastanza anonimo non lontano dall’Universita di Wits che ci ha ospitato per il Congresso e con Nkosi Sikelel' iAfrika (“God bless Africa”, l’inno nazionale sudafricano) in loop.
Cerco di mettere insieme questa giornata che dura da ieri, quando tra cellulare e guide cartacee, comprate nelle piccole librerie che occupano questa città, ho cercato di costruire il mio itinerario.
Taxi-uber. Alla fine, stamani non sono partita da sola. C’è Jenny con me. Da dove siamo noi a Soweto sono 30 minuti di macchina. Le strade a Johannesburg sono grandi e larghe, nulla da invidiare alle autostrade dell'occidente. Man mano che avanziamo, il paesaggio diventa sempre più vuoto, meno mall, meno negozi di macchine e grandi marche. Le case sono più modeste “E' lontano Soweto, Daniela, regardes comment ça a changé l’ambiance”, mi dice Jenny col naso attaccato al finestrino. Ci sono grandi scritte sui muri che non capisco, forse è zulù, forse xhosa o le altre tante lingue di questo posto. Jenny mi fa notare che qui a Johannesburg c’è molta gente che fuma per strada rispetto al Congo. E’ vero. Jenny con le sue considerazioni mi distrae da quella necessità continua di trovare qualcosa di riconoscibile nel mio vissuto. Mi succede sempre quando arrivo in un posto nuovo, quasi a trovare una sponda cui aggrapparmi per non sentirmi persa. Intanto fuori si iniziano a vedere agglomerati di case, sono tutte dalla stessa altezza, sparse in campi non coltivati e secchi. C’è abbastanza gente che popola questo posto, chi sale sugli autobus e chi va a piedi, spariscono i macchinoni e compaiono auto più modeste. E' tutto più modesto qui, Soweto da questa impressione.
Ecco cosa significa questo acronimo. Ce lo spiega la guida del museo Hector Pieterson, che è il nome dello studente che fu il primo ad essere ucciso, durante la manifestazione degli studenti delle scuole di Soweto. Volevano l’abolizione della lingua afrikaans nell'insegnamento, a favore di quelle locali. Hector fu il primo di centinaia a morire, dice la guida, portandoci nella prima "sala" del museo, che poi è un giardino interno pieno di targhe per terra, con i nomi e la data del 16 giugno 1976; su alcune invece c'è scritto unknown e indicano i corpi che il governo dell’apartheid non ha mai restituito alle famiglie.
Nel museo non si possono fare foto. Ce ne sono moltissime, tuttavia. Si sentono le voci narranti dei video, che si sovrappongono a quella della nostra guida. E’ un giovane ragazzo che mostra fierezza nel parlare del suo popolo, cita suo nonno, quando ad un certo punto di interrompe per chiedere a Jenny “Are you ok, my sister?”.
Ci racconta che i non-white per uscire da Soweto e andare verso la città dovevano avere due pass, uno che si chiamava il “ Dom-pass” (domestic pass - detto anche pass degli idioti) che ti permetteva di uscire e un altro che si chiamava “il pass speciale” che ti dava la durata dell’uscita. La guida racconta che tra i vari motivi di uscita c'era quello di andare a farsi una foto di famiglia - per un certo periodo avere una macchina fotografica era vietato. Nel video che abbiamo davanti scorrono proprio delle foto di famiglia: ci sono fratelli vestiti di tutto punto e con baffi sottili, famiglie con i bambini in fila dal più alto al più basso o ancora uomini a torso nudo con muscoli in tensione. Se ti beccavano fuori dal periodo di permesso, ti prendevi da 3 mesi a 6 anni di prigione.
Per Jenny è la prima volta per qualunque cosa qui, incluso ascoltare il racconto di questa umanità crudele e così crolla per un attimo. Eppure, mi dico, che lei viene dalla Repubblica Democratica del Congo, un posto che non vede pace da 60 anni. Più tardi mi dirà che è diverso.
La visita dura un’ora. Sono esposte le armi che hanno ucciso gli studenti, le foto scattate che furono nascoste per paura della censura o della distruzione e i cartelli usati dai ragazzi nella protesta. In uno c’è scritto “Who is next?” Riferendosi a Hector, morto per primo.
Quello che colpisce me e Jenny sono i sorrisi e le braccia alzate dei ragazzi nelle foto.
Ma è forse proprio la ribellione pacifica che spinge ancora di più la crudeltà di chi si appropria del diritto di uccidere?
La strada che porta dal Museo di Hector alla casa di Mandela non deve essere lunga, secondo quanto ci dice la guida. Tutto dritto, poi girare a sinistra al semaforo e passare davanti a due scuole, la prima è quella dove è stato ucciso Hector, poi continuare avanti e poi sulla sinistra c’è la casa di Mandela e più avanti quella di Desmond Tutu. Ci scappa un sorriso quando realizziamo che lui e Mandela, due nobel per la pace, vivevano nella stessa strada. Sappiamo che è una risata liberatoria dopo quello che abbiamo visto. Ci perdiamo nel quartiere. Scopro che Jenny è peggio di me in quanto a orientamento. Saliamo per una strada con le case fatte tutte di mattoni rossi. E’ tutto molto semplice e quotidiano. Una donna che sta stendendo i panni ci dice che siamo nella direzione sbagliata, che per andare a casa di Mandela bisogna tornare indietro. Così passiamo per altre vie. C’è un caldo secco, il cielo è azzurrissimo, ci sono due operai che bevono una una birra seduti sul marciapiede, i bambini che escono da scuola in divisa blu, i pulmini bianchi che fanno scendere donne con lunghe gonne e sacchi della spesa, così come un venditore ambulante che ha berretti cappelli colorati con scritto Soweto. Ci dicono tutti buongiorno in maniera discreta. Ho come la sensazione che quel posto non sia cambiato molto dai tempi di Mandela.
La casa di Mandela è piena di roba, la sua roba, quella che è rimasta di Winnie, dei suoi figli, i documenti, gli attestati, le foto, i diari, i manifesti, i riconoscimenti, le scarpe, le banconote dei vari paesi con le dediche di chi lo ha supportato nella prigionia. Jenny trova anche quella della Repubblica Democratica del Congo "Quella del Congo Brazzaville non c'è!" scriverà ai nostri colleghi in un messaggio whatsapp. In una teca ci sono le lettre che Mandela scriveva dal carcere, ne poteva scrivere due l’anno, così come le visite, 2 di mezzora l’una. Un’ora l’anno per 27 anni.
Tutto è sistemato senza troppo criterio. Mi colpisce as esempio una foto di lui che copre il muro della doccia. Nel piccolo giardino c'è l’albero della melaleuca, alle radici del quale sono stati interrati i cordoni ombelicali dei tre figli. Nelle teche, le scarpe. Sui muri, i segni dei colpi di arma da fuoco. A terra, il segno del muro ormai divelto, costruito per protezione.
Entriamo nella sua camera, ma il letto è quello del figlio, il suo fu bruciato durante un incendio. E poi ci sono le tante foto di lui da giovane fino al momento della prigionia. L'ultima è di lui col cane.
La visita alla casa è meno impattante del Museo Hector Pieterson. C’è più vita che morte qui, anche se non è il museo che mi aspettavo: tanti oggetti e altrettante informazioni tutte insieme, forse troppe rispetto all’idea di un Uomo che nel mio immaginario viveva con poco. Ma lo scopo è evidentemente quello di condividere tutto quello che resta.
C’è molto andirivieni di turisti, le foto sono ammesse e la gente non si limita nei selfie. Jenny mi dice più volte di essere contenta di pestare il suolo in cui Mandela ha camminato ed io provo la stessa sensazione. Me lo immagino nel piccolo giardino a leggere quei libri che lo hanno reso una delle migliori persone al mondo oppure a discutere con Winnie, che non seppe reggere alla potenza della scelta del perdono di suo marito e se ne separò per gettarsi nelle braccia di Samora Michel, un altro uomo importante.
Girato l’angolo di casa di Mandela, ecco l’unica parte turistica del quartiere: collane, vestiti e cesti coloratissimi. Le torri di Soweto si vedono a distanza, qualche bar straripante di turisti, murales e gente che cerca il modo di fare qualche soldo con chi è venuto da lontano.
Prendiamo qualcosa.
La sera Jenny dice di essere contenta della giornata, anche se è turbata e che non si aspettava tutto questo. Non indago, mi piace ascoltarla senza interferire. Le dico solo di prepararsi che domenica forse sarà ancora più dura, quando andremo al museo dell’Apartheid.
Mi dice di essere pronta.
Aggiunge che le piace vedere che questo è un popolo che ha reagito, dopo aver vissuto quello che ha vissuto. Dice di avvertire che qui la rivoluzione è servita ad ottenre i propri diritti e che anche lei viene da un paese difficile e che anche il suo popolo si batte a modo suo e solo che...“solo che noi un Mandela non ce l’abbiamo avuto".
[...to be continued]
Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone veniva ucciso dalla mafia. Lo considerò un piccolo Mandela.
E qui, un po' di storia su questo Inno Nkosi Sikelel' iAfrika
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'How I feel' hasn't been said in a while.
So many things, but today there is something that I would like to share, before too much time passes and I miss images and thoughts, which come in, pass through me and then take a shape that has a bit of my stamp on it.
At the end of April I went to Johannesburg to attend a conference. With me came Jenny, a girl from Kinshasa who has been part of the project staff for two years, and there we met up with colleagues from the other Congo and Madagascar to present our work at the first congress of the African Social Marketing Association.
Night of 27 April 2023, Johannesburg
I study and try to figure out my bearings. It seems that none of my colleagues will feel like leaving the hotel early tomorrow. But I do, I'm coming out of a complicated time in Congo and we've had four days of congress here and I haven't seen anything of this city yet. I put in 'favorites'' a lot of places found on google, knowing that I will get lost due to the nullity of my sense of direction.
However, the destination is SOWETO, the neighborhood where Nelson Mandela lived before his imprisonment, and it is a destination I have been looking forward to for years.
28 April 2023, Johannesburg
It has happened: when you are where you wanted to be.
Now, in my room in Johannesburg, on the sixth floor of a fairly anonymous hotel not far from the University of Wits that hosted us for the Congress and with Nkosi Sikelel' iAfrika ('God bless Africa', the South African national anthem) on loop.
I've been trying to piece together this day since yesterday, when between mobile phone and paper guides, bought in the small bookshops that occupy this city, I tried to construct my itinerary.
Taxi-uber. In the end, I didn't set off alone this morning. Jenny is with me. From where we are to Soweto is a 30-minute drive. The roads in Johannesburg are big and wide, nothing to envy the highways of the West. As we progress, the landscape becomes emptier and emptier, fewer malls, fewer car shops and big brands. The houses are more modest. 'It's a long way to Soweto, Daniela, regardes comment ça a changé l'ambiance,' Jenny tells me with her nose stuck to the window. There is big writing on the walls that I don't understand, maybe it's Zulu, maybe Xhosa or the other many languages of this place. Jenny points out to me that here in Johannesburg there are more people smoking in the streets than in Congo. This is true. Jenny with her remarks distracts me from that constant need to find something recognisable in my experience. It always happens to me when I arrive in a new place, almost as if to find a shore to cling to in order not to feel lost. Meanwhile outside you start to see clusters of houses, they are all at the same height, scattered in uncultivated, dry fields. Quite a few people populate this place, some get on buses and some walk, the big cars disappear and more modest cars appear. Everything is more modest here, Soweto gives that impression.
SO: South WE: West TO: Township
That is what this acronym means. The museum guide Hector Pieterson explains it to us, which is the name of the student who was the first to be killed, during the Soweto school students' demonstration. They wanted the abolition of the Afrikaans language in education, in favour of local ones. Hector was the first of hundreds to die, says the guide, leading us into the first 'room' of the museum, which is then an indoor garden full of plaques on the ground, with names and the date 16 June 1976; on some, however, it says unknown and indicates the bodies that the apartheid government never returned to their families.
No photos can be taken in the museum. There are plenty, however. You can hear the voices narrating the videos, overlapping with that of our guide. He is a young boy who shows pride in talking about his people, quotes his grandfather, when at one point he interrupts to ask Jenny, "Are you OK, my sister?"
He tells us that in order to get out of Soweto and into the city, non-whites had to have two passes, one called the 'Dom-pass' (domestic pass - also known as the 'idiot pass') which allowed you to get out, and another called 'the special pass' which gave you the length of time you could get out. The guide tells us that one of the reasons for going out was to go for a family photo - for a certain period having a camera was forbidden. In the video in front of us, there are family photos: there are brothers dressed up with thin moustaches, families with children lined up from the tallest to the shortest, or shirtless men with tense muscles. If you were caught outside the leave period, you got three months to six years in prison.
For Jenny it is the first time for anything here, including hearing the tale of this cruel humanity, and so she breaks down for a moment. Yet, I tell myself, she is from the Democratic Republic of Congo, a place that has not seen peace for 60 years. Later she tells me it is different.
The visit lasts an hour. On display are the weapons that killed the students, the photos taken that were hidden for fear of censorship or destruction, and the placards used by the boys in the protest. One reads "Who is next?" Referring to Hector, who died first.
What strikes me and Jenny are the smiles and raised arms of the boys in the photos.
But is it the peaceful rebellion that pushes the cruelty of those who take the right to kill even further?
The road from the Hector Museum to Mandela's house need not be a long one, according to the guide. All straight ahead, then turn left at the traffic lights and pass in front of two schools, the first is the one where Hector was killed, then continue ahead and then on the left is Mandela's house and further on Desmond Tutu's house. A smile escapes us when we realise that he and Mandela, two Nobel Peace Prize winners, lived on the same street. We know it is a liberating laugh after what we have seen.
We get lost in the neighbourhood. I discover that Jenny is worse at orientation than I am. We walk up a street with the houses all made of red brick. It's all very simple and everyday.
A woman who is hanging out the laundry tells us that we are in the wrong direction, that to go to Mandela's house we have to go back. So we go by other routes. It is a dry heat, the sky is blue, there are two workers drinking a beer sitting on the pavement, children coming out of school in blue uniforms, white minibuses dropping off women with long skirts and shopping bags, as well as a street vendor who has colourful hats with Soweto written on them. They all say good morning discreetly. I get the feeling that the place has not changed much since Mandela's time.
Mandela's house is full of stuff, his stuff, what's left of Winnie, of his children, documents, certificates, photos, diaries, posters, awards, shoes, banknotes from various countries with dedications from those who supported him in his imprisonment. Jenny also finds the one from the Democratic Republic of Congo 'The one from Congo Brazzaville is not there!' she writes to our colleagues in a whatsapp message. In a display case are the letters Mandela wrote from prison, he could write two a year, as well as the visits, two of half an hour each. One hour a year for 27 years.
Everything is arranged without too much criterion. A photo of him covering the shower wall, as an example. In the small garden there is the melaleuca tree, at the roots of which the umbilical cords of the three children have been buried. In the cases, there are shoes. On the walls, there are the marks of gunshots. On the floor, there is the sign of the now-dismantled wall, built for protection.
We enter his bedroom, but the bed is his son's, his was burnt during a fire. And then there are the many photos of him as a young man up to the time of his imprisonment. The last one is of him with his dog.
A visit to the house is less impactful than the Hector Pieterson Museum. There is more life than death here, although it is not the museum I expected: so many objects and so much information all at once, perhaps too much compared to the idea of a Man who in my imagination lived with little. But the aim is evidently to share all that remains.
There is a lot of coming and going of tourists, photos are allowed and people are not limited to selfies. Jenny tells me several times that she is happy to step on the ground where Mandela walked and I feel the same. I imagine him in the small garden reading those books that made him one of the best people in the world, or arguing with Winnie, who could not handle the power of her husband's choice of forgiveness and parted with him to throw herself into the arms of Samora Michel, another important man.
Around the corner from Mandela's house, here is the only touristy part of the neighbourhood: colourful necklaces, clothes and baskets. The towers of Soweto can be seen from a distance, a few bars overflowing with tourists, murals and people looking for ways to make some money with those who have come from afar.
We grab something.
In the evening Jenny says she is happy with the day, even if she is upset and that she did not expect all this. I don't investigate, I like to listen to her without interfering. I just tell her to get ready that Sunday may be even harder when we go to the Apartheid museum.
She tells me she is ready.
She adds that she likes to see that this is a people who have reacted, having experienced what they have experienced. She says that she feels that the revolution here was about getting her rights and that she too comes from a difficult country and that her people also fight back in their own way... 'only we didn't have a Mandela'.
[...to be continued]
On 23 May 1992 Giovanni Falcone was killed by the Mafia. I consider him a little Mandela.
And here, a little history on this Nkosi Sikelel' iAfrika anthem