11 settembre 2016, Tokyo
davanti al Tempio Fuji mae jinja |
Tutto inizia quando il sensei torna con una spalla devastata per qualcosa cui ha partecipato in Giappone. Questa cosa ha un nome che non ricorderò per i successivi 4 anni e che di tanto in tanto dovrò farmi ripetere. "Matsuri, e vuol dire festa”.
Il sensei adesso fa parte della comunità del quartiere di Komagome, a Tokyo. Ha la giacca da matsuri con il suo nome da una parte, dall’altra quello del tempio, il Fuji mae jinja.
Cosa fosse un matsuri finora me lo ero solo immaginato, grazie ai racconti del sensei.
Una sorta di processione, un po’ come quelle del venerdì santo dei paesi del sud Italia. Poi tanta sofferenza fisica dovuta al trasporto a spalla del mikoshi , che ha dei campanelli e orpelli, così chi trasporta deve pure saltellare.
Il matsuri di Komagome
Tokyo
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Funziona che varie comunità di uno stesso quartiere hanno un tempio consacrato a un Dio o una Dea. Quella di Komagome è la Dea Amaterasu.
A me sarebbe bastato andare a scattare delle foto. Il sensei invece mi ci ha iscritto, principalmente in risposta alle mie battute sulla sua carriera sacerdotale nel tempio giapponese (lui che religioso non lo è manco per niente).
Al mattino si va a preparare il carro. Io e LaBi la pulizia ce la siamo risparmiata. LaBi mi ha portato direttamente da Tanuji Shokudo, il ristorante modello kiss-me-licia di Yukio-san e Sakamoto-san. Qui, come in altri posti del quartiere, vengono offerti cibo e bevande ai portantini durante le soste.
C'è un’americana con la figlia, vivono da 2 anni a Tokyo e sono aduse al matsuri. Poi arrivano due cinesi di Hong Kong, marito e moglie, adusi anche loro. Ne arrivano altri alla spicciolata. Ognuno indossa giacca e l’obi (la cintura) forniti da Sakamoto-san. Ai piedi molti di noi hanno i tabi, le scarpe col dito.
Al tempio è tutto pronto. Chi in mutande, chi in pantaloni corti, lunghi; i maschioni scaldano i muscoli, mentre le ragazze sorridono e si truccano in un angolo. Belle decise anche loro.
Il carro d’oro è pronto. Lucidato a festa. Sono due. Uno piccolo, con cui inizieremo il giro (dice l’uomo con l‘altoparlante) e uno grande, che gira solo ogni 4 anni e questo è un quarto anno. Il grande carro sarà portato dai rappresentanti delle 13 comunità del quartiere.
Si comincia. Il signore col megafono dà il via, si battono le mani a ritmo di 3 colpi per 3 volte e si chiude con un solo colpo. Il sensei è già sotto. Io guardo per ora.
“Is-ssah!”
“Do-rèh!”
Chissà che dicono in realtà.
Il carro è sulle spalle e gira per le vie. E’ impressionante il contrasto tra il vecchio e il nuovo. Il carro va dove deve andare, nei vicoli, così come nella strada a 4 corsie, con le macchine moderne che gli passano accanto. C’è molta enfasi. Vigili e polizia sorvegliano il traffico e chi non trasporta, accompagna e dirige il carro ed è pronto a dare il cambio. Chi sta fuori è in piena festa e si vede.
Da una parte si osservano display di maschi forzuti, dall’altra si vede la gioia della comunità. Si avverte la potenza del rito che tiene uniti i gruppi sociali, al di là di quello che poi ogni individuo è nella vita normale. Oggi è così. Si sta insieme in questo modo.
Alla prima sosta ci danno dell’alcol, frutta, noccioline, onigiri. C’è chi fuma da una parte, chi fa selfie, foto davanti al carro, incontri e risate. Sembra che il rito abbia rotto le distanze e gli schemi che finora avevo visto a Tokyo.
Quando si riparte c’è ancora più energia e provo a trasportare. Mi metto dietro a uno più alto così da non gravare troppo sulla spalla. Quando quello d’avanti molla, è lì che fa male. Ma se guardo il cielo e grido "Is-sah!" va meglio, anzi mi piace proprio. Per un attimo sono una di loro. Anche se io con loro mi sento di non incastrarci proprio nulla. Sono in Giappone anche per questo: per trovare quello che non sono. Testa su, avanti a saltelli, la vicinanza del sensei mi conforta.
Cambio spalla e piano piano si sciolgono i muscoli e le inibizioni, la paura di fare la cosa sbagliata va via, come va giù la birra che gira alle soste. La spalla duole, il collo tira. C’è dell’eccitazione, talmente tanta che al momento del carro grande scoppiano due risse. Vedo la testa di uno in una fioriera, così acchiappo LaBi e le dico che se è come in Italia la rissa si sparge a macchia d’olio. Invece siamo in Giappone e i due capi rissa vengono presto isolati. Dice che è tutta colpa della eccitazione/competizione per chi vuole stare avanti a portare il carro.
Siamo tornati al tempio, ma il carro non si ferma. Ricomincia e tocca a noi sole donne adesso. Saltello con loro e cambio ancora spalla. Alcuni maschi vengono ad aiutarci, chi sta fuori fa come l’allenatore di Rocky Balboa.
Ancora pausa e ancora birra. Spiedini, patatine di riso, frutta e fagioli verdi salati (buonissimi). Ho capito, qui finisce che domani il quartiere ha mal di testa. Is-sah e Do-rè sono essenziali adesso che si è più stanchi.
Incrociamo altri gruppi, con rispetto, uno va a destra e l’altro a sinistra. I carri sono simili “ma noi siamo più fighi” penso. Mi sto esaltando. Il capo tempio con il megafono decide che è finita. Si mette davanti alla porta principale e batte i legnetti. Il carro si ferma. Sono passate 8 ore. Chi sta sotto è esausto, ma contento. I maschioni in mutande avrebbero continuato. E’ buio. Dentro al tempio, il discorso finale del “vescovo”.
Fuori, si restituiscono le giacche e le cinture. La gente si saluta e si dà appuntamento al prossimo matsuri.
Adesso tutti a mangiare. Sakamoto-san ha già apparecchiato e Youkio-san è ai fornelli.
Bello.
E' stato proprio un giorno di matsuri.
E ora la prossima processione del venerdì santo a Mesagne non te la leva nessuno!
RispondiEliminaci provo, ma c'è una lista di attesa di un paio d'anni!
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