A tutto Est: in Giappone

17 mar 2024

Le cascate di kandeko. E per Levi era la prima volta.

ENGLISH BELOW

Le cascate di kandeko ci sono piaciute proprio e per Levi era la prima volta.

Levi è uno dei mille nipoti di Blaise e Blaise è la persona che gestisce il sito “turistico” che si trova a Kandeko, un villaggio a 20 km da Ouesso. Le virgolette alla parola turistico ci volevano tutte, almeno fino a qualche mese fa.

C’eravamo già stati 2 anni fa con Yorick, Sasha e Rwan. Ci andammo un  pomeriggio a fare un sopralluogo. Dopo che ci spiegò come funzionava, e che saremmo dovuti tornare il giorno dopo, rRimanemmo un po’ a suonare con la famiglia di Blaise, noi avevamo chitarra e il tamburello e loro qualunque superficie da percuotere.

L'indomani partimmo per la visita alle cascate. Dopo 5 minuti di marcia ci ritrovammo immersi con l’acqua fino al collo, i ruscelli di cui Blaise ci aveva parlato e che avremmo dovuto attraversare facilmente erano in realtà fiumi in piena, a causa della pioggia della notte precedente. Ma ormai eravamo lì, continuammo. Il tutto durò un’ora e quaranta e l’unica cosa che non si bagnò furono le macchine fotografiche negli zaini portati sulla testa. Arrivammo alle cascate e le guardammo dall’alto. Fu una delle mie prime uscite in natura in Congo.

Agosto 2021

Nov 2021: bagnati fino alle mutande
Anche la seconda volta che ci andai ne uscii completamente bagnata e neanche stavolta fu per un tuffo nella cascata, ma per la pioggia che ci prese sulla via del ritorno. Consegnai anche il mio k-way per coprire il piccolo di 3 anni che era con noi. Avevo l’acqua fino alle mutande, anche in quell'occasione, Blaise ci disse che presto avrebbe risistemato il posto per renderlo “turistico”, costruendo ponti sui ruscelli, sistemando il bar sulla casetta rialzata e poi il prato lungo il torrente all’entrata e poi i bungalow per pernottare. Di turistico Blaise però in quel momento aveva solo fissato i prezzi, oltretutto altissimi e io gentilmente mi rifiutai di dare la somma richiesta e lui non ce la fece a insistere.

Poi qualche mese fa incontro Blaise mentre lego la bici al lavabo delle abluzioni di Salem 1, il supermercato di Ouesso. Lì per lì non lo riconosco, è vestito bene, con la barbetta e ha preso qualche chilo. Quando dice il suo nome, lo focalizzo. Mi invita all’inaugurazione del sito. “enfin, on a fait les travaux, Danielà”. Mi dice subito i prezzi che ha fissato, memore forse dell’ultima volta in cui non pagai. All'inaugurazioni non potetti andare, ma ricevetti degli ottimo feedback.

Così domenica io e la mia amica Maria abbiamo deciso di andarci. Chiamo il tassista di fiducia, che solo di nome fa Christian Dior (il cognome a questo punto non importa). Blaise però non ci sarà, ha una veglia funebre, mi dice al telefono.  Tuttavia si raccomanda di chiedere di suo figlio Prince se vogliamo andare alle cascate. “Vedrai, Daniela come è tutto nuovo” mi dice con soddisfazione.

Al nostro arrivo troviamo la famiglia Blaise al completo:  madre, nonna, figli, nipoti, polli e pecorelle. Prince non c'è. C’è Maman Nathalie, che si ricorda di me e della musica suonata la prima volta. Ci mostra le migliorie, lo spazio picnic adesso ha le altalene e due grandi macchine giocattolo per i bambini. Tutto è fatto con materiali di riciclo. Ci fa vedere le chenilles messe a seccare col mango selvatico. È il periodo buono.

Agosto 2023

Prince arriva e ci presenta la sua equipe. Oltra a lui ci sono Levi e Stev, due dei tanti nipoti di Blaise. I ragazzini ci mostrano i nuovi spazi del sito: i laghetti per la piscicultura e l’idrovora per la corrente elettrica, poi il campo di platani, la canna da zucchero, i corrosol e papaye e tutto in fondo la foresta. Levi è il più piccolo, ha occhi profondi e vispi, parla benissimo e con passione del lavoro messo su dal nonno. Non avrà 10 anni secondo me. Ci dice che i pesci dello stagno si possono pescare solo da adulti, dice che sono grandi quanto lui e che li pescano mentre mangiano le radici delle ninfee.

"Chi conosce la foresta è Prince", dice Levi con fierezza. Gli chiedo degli animali, mi dice che ci sono i gorilla, e anche un gruppo di scimpanzé, che al mattino presto si affaccia proprio lì davanti. Ma quelli non si possono cacciare, mi dice. 

Per arrivare alle cascate stavolta ci sono voluti solo 40 minuti, andando a passo veloce. Prince e i ragazzi ci aprono la strada a colpi di macete. Nel cammino, frutti mangiati dalle scimmie impronte di elefanti. 

Camminiamo veloce, il rumore dell’acqua inizia a sentirsi sempre più forte. Quando arriviamo davanti alle cascate, sempre la stessa sensazione di pace, come le altre volte. Dopo 5 minuti siamo tutti in acqua. Con noi c'è anche un altro ragazzo, che non parla e non si tuffa, ma ci guarda affascinato.

Scopriamo che per Levi e Stev è la prima volta che nuotano qui nelle cascate. Pochi arrivano fino qui e nessuno fa il bagno, ci dicono. Stev entra in acqua coi pantaloni lunghi. Nuotano come dei pesci. Facciamo le 3 vasche sui diversi livelli, passando tra le rocce e tuffandoci ogni volta. Ci aspettiamo reciprocamente, con una bella complicità. L’acqua è fresca e pulita e mi ricompensa di quella voglia che spesso ho di immergermi fino alla punta dei capelli.

Per i ragazzi però l'acqua è troppo fredda, non sono abituati.

Levi et Stev, Agosto 2023

Al rientro il tratto di foresta sembra durare meno, "perché a ritorno si hanno meno aspettative” dice saggiamente Maria. Arrivati alla base, è come se ci aspettassero tutti. Siamo la novità. Questo posto non lo conosce nessuno o comunque qui il turismo non esiste. 

La famiglia è riunita, Stev e Levi si uniscono agli altri piccoli, i grandi ai grandi e io e Maria mangiamo il nostro panino con l’omelette. Prince resta con noi a fumare la sua sigaretta, mentre in fondo c'è il rumore di ingranaggio dell' altalena accanto alle due grandi Ravinala del Madagascar.

A prenderci ci sarà Merveil, mandato da Christian Dior. Maman Nathalie, sotto il grande cancello arruginito si raccomanda di portare la musica la prossima volta e Prince mi promette che mi porterà a cercare gli scimpanzé.

Chissà se lo faremo davvero, ma qui è la prospettiva che conta "pour s'accorcher".

E bravo Blaise! E lo ammetto, non ci avevo creduto del tutto...

Qui, un riassunto della giornata, con Levi affascinato dalla GoPro che può andare nell'acqua.


We really liked the Kandeko Falls and it was Levi's first time there.

Levi is one of Blaise's thousand grandsons and Blaise is the one who runs the 'tourist' site, located at 20 km from Ouesso. The inverted commas at 'tourist' were all we needed, at least until a few weeks ago.

We had already been there two years ago with Yorick, Sasha and Rwan, one afternoon, sightseeing, and Blaise told us to go back there from the morning if we wanted to get to the falls. He would give us guides and in an hour or so we would arrive. So we stayed there for a while playing guitars and tambourine we had brought, and Blaise's grandchildren joining in with improvised percussion on whatever surface.

The next day we went there in the morning and set off in search of the falls in a caravan with two natives. After five minutes of walking, we found ourselves up to our necks in water. The streams we were supposed to easily cross - according to Blaise - were raging rivers, due to the rain the night before. But by now we were there and we continued. The whole thing lasted an hour and forty minutes and the only thing that didn't get wet were the cameras in the rucksacks we carried on our heads. We arrived at the waterfalls and looked at them from above. It was one of my first trips to Congo.

The second time I went I came out completely wet and this time it was not a dip in the waterfall either, but the rain that caught us on the way back. I also handed over my k-way to cover the little one who was with us. I had water up to my knickers, even then. Blaise told us that he would soon rearrange the place to make it 'touristy', the path, the bar on the raised hut, the meadow along the stream at the entrance and then the bungalows to stay overnight. All Blaise had done at that moment was to set the prices, which were very high, and I politely refused to give him the amount he asked for and he could not insist.

Then a few weeks ago I meet Blaise while tying my bike - as usual - to the ablutions sink at Salem, the supermarket in Ouesso. There and then I don't recognise him: he is well dressed, with stubble and has gained a few kilos. When he says his name, I focus on him. He invites me to the site opening. "enfin, on a fait les travaux, Danielà". He immediately tells me the prices he has set, mindful perhaps of the last time I didn't pay. Unfortunately I won't be able to be there, because I will be on a mission among goat breeders and potential vets.

So last Sunday my friend Maria and I decided to get there. I call our trusted taxi driver, Christian Dior (that's just his first name, the surname doesn't matter at this point). Blaise won't be there though, because he has a wake, but he recommends asking about his son Prince if we want to go to the falls. 'You'll see, Daniela how new everything is,' he tells me on the phone with satisfaction.

Prince is of course not there when we arrive, but there is the whole Blaise family: mother, grandmother, children, grandchildren, chickens and sheep. There is Maman Nathalie, who remembers us and the music from the first time. The picnic area now has swings and two large toy cars for the children, made from recycled materials and now housing caterpillar to dry with wild mangoes. It is good times.

"The 'waterfall team' entrusted to us consists of Prince, Levi and Stev, Blaise's two young nephews. The young boys show us the work they have done: the ponds for fish farming and the hydro-vessel for electricity, then the field of plane trees, sugar cane, Corrosol and papaye, and all around the forest. Levi is the youngest, he has deep, lively eyes, he speaks very well and passionately about the work his grandfather put in, he will not be 10 years old in my opinion. He tells us that the fish in the pond can only be caught as adults, he says they are as big as he is and that they catch them while eating the roots of the water lilies.

He who knows the forest is Prince, says Levi proudly. I ask if there are any gorillas, he says they are seen, just as one sometimes sees a group of chimpanzees early in the morning in the trees out front. He adds that Prince, however, hunts neither gorillas nor chimpanzees, because otherwise you go to prison.

Getting to the falls this time took only 40 minutes at a brisk pace. Prince and the boys with machetes lead the way. Prince shows us the fruit eaten by the monkeys and the footprint left by the elephant. There is a tree felled, he did it because the fruit was too high to be picked. Mmhh...there is work to be done on this evidently. We walk fast, the sound of water from the falls starts to get louder and louder. When we arrive in front of the waterfalls, the same peaceful feeling as before. After five minutes we are all in the water. There is also another guy with us, who does not speak or dive, but looks at us fascinated.

We discover that it is the first time for Levu and Stev to dive into the waterfall. Stev even enters the water in his long trousers. They and Prince are fish. We do the three pools on different levels, passing between the rocks and diving in each time. We wait for each other, with a nice complicity. The water is cool and clean and makes up for that lack I sometimes have in Ouesso of 'diving to the tip of my hair'.

For Levi though, the water is too cold, he is not used to it, but he stays in front of the GoPro to see if it really can film underwater!

On the way back we take even less time than on the way out, 'on the way back you have fewer expectations,' says Maria wisely. When we arrive at the base, it is as if everyone is waiting for us. The family is reunited, Stev and Levi join the other little ones, the big ones the big ones, and Maria and I eat an omelette sandwich. Prince stays with us and smokes his cigarette, while in the background there is the rattling of the swing next to the two big Madagascar Ravinalas.

Picking us up is Merveil, sent by Dior. Maman Nathalie recommends bringing music for next time and Prince will take me to look for chimpanzees.

Who knows if we'll actually do it, but here it's the perspective that counts "pour s'accorcher"

And bravo Blaise! And I admit, I didn't quite believe you could do it.







11 mar 2024

l'8 marzo a Ouesso

ENGLISH BELOW

8 Marzo 2021, Ouesso
Tornavo dall’allenamento di aikido quando mi sento chiamare dal mio collega. E' seduto al bar accanto a casa mia con altri amici. Mi fermo a bere una birra. Ho ancora addosso i pantaloni dell'uniforme e me ne rendo conto solo quando realizzo che sono l’unica vestita "male". Intorno a me tante, tantissime donne di tutte le età con abiti bellissimi, confezionati con i tessuti africani. Mi dicono che si chiamano "pagne", che poi è il nome con cui si chiama qui la stoffa. Ci sono i pagne dpecifici per l'8 marzo e scopro che ogni donna se ne fa cucire uno per questo giorno speciale. 
“Ma poi speciale perché?” Mi chiedo una volta rientrata a casa, dopo diverse birre in compagnia dei colleghi e di altra gente conosciuta al bar. Mi resta addosso una sensazione di tristezza. Mi sembra riduttivo che un giorno così importante per noi donne, diventi quello in cui si è libere di uscire, bere, ballare fino a notte fonda e col beneplacito degli uomini. Sono qui da poco e sento che mi mancano ancora tanti elementi di questa complessa nazione per capire a fondo.

8 Marzo 2022, Ouesso
@Chris.Nzounzi
Quest'anno siamo andati al Liceo con le due équipe di progetto. Alcune donne della nostra organizzazione hanno parlato davanti a una classe di studenti e insegnanti delle loro esperienze di “donne della Conservazione”. Abbiamo lavorato duro per preparare questa giornata. Volevamo parlare alle nuove generazioni, ma soprattutto ascoltarle. Volevamo creare un ricordo diverso di questa giornata. Abbiamo raccontato la storia dei nostri diritti conquistati e abbiamo provato (forse con un po' di presunzione) a instillare la speranza di poter continuare a difenderli e perché no, aumentarli, migliorarli. L’insegnante che per tutta la giornata è stata scettica nei nostri confronti e verso i ragazzi che ci hanno seguito, alla fine ha preso “il bastone della parola”. Ha concluso dicendo che, se fosse tornata indietro avrebbe fatto come Angela, che oggi ci ha fatto commuovere con la sua storia di lotta contro chi voleva convincerla a tornare a casa, fare la madre, invece di studiare e infognarsi in questa storia della salvaguardia della natura.

8 Marzo 2023, Ouesso
Quest’anno è diverso. E' il terzo. Quest’anno mi hanno invitato, mi hanno vestito e così ho sbirciato, ho rubato, ho ascoltato, ho vissuto. 
Se ne comincia a parlare da almeno tre settimane prima. Se hai bisogno di una piega al pantalone, scordatelo, perché tutti i sarti e le sarte saranno già piegate sulle singer a pedali. Nascono “punti di cucito temporanei”, con donne che si improvvisano sarte pur di fare qualche soldo. È il caso del banco tra casa mia e l’ufficio, su cui di solito ci sono pomodori, melanzane, cipolle e beignet. In questi giorni invece ha avuto pile di abiti con grandi 8 e lunghe scritte sui diritti della donna. Non importa l’età, ma ognuno deve avere il suo pagne. Chi si è organizzato per tempo, lo indossa dal mattino, chi è in ritardo, l’importante che ce l’abbia dal tramonto in poi, quando la festa comincia. 
In questi tre anni ho imparato dalle donne che ho incontrato che non è vero che è solo l’8 marzo il giorno in cui loro sono libere di uscire, lasciare i mariti a casa con i figli e divertirsi. È che l’8 marzo tutto questo è riconosciuto, è accettato, con consenso generale insomma. L’8 marzo è solo una festa.
Ho raccolto qualche frase tra birra e tacchi incastrati nei lunghi abiti:

“Durante l’anno facciamo più o meno quello che facciamo oggi, ma gli uomini non sono contenti come oggi.”

“Che diritti? Tanto non cambierà mai niente in questo Paese e allora noi oggi almeno festeggiamo”

“Che cosa deve cambiare? Maman Daniela, guarda che se qualcosa cambia davvero per noi, poi per loro è complicato, mais jamais…”









8 March 2021, Ouesso
I was returning from aikido training when I hear my colleague calling me. He is sitting at the bar next to my house with other friends. I stop for a beer. I realise am still wearing my uniform trousers when I see that I am the only one 'badly' dressed. All around me are many, many women of all ages in beautiful dresses, made from African fabrics. They tell me they are called 'pagne', which is the name by which the cloth is called here. There are pagne specific for 8 March and I discover that every woman has one sewn for this special day.
"But then special why?" I ask myself once I get home, after several beers in the company of colleagues and other people I met at the bar. I am left with a feeling of sadness. It seems to me reductive that such an important day for us women should become the day when we are free to go out, drink, dance late into the night and with the approval of men. I have only been here a short time and I feel that I am still missing so many elements of this complex nation in order to fully understand it.

8 March 2022, Ouesso
This year we went to the high school with the two project teams. Some women from our organisation spoke in front of a class of students and teachers about their experiences as 'Women of Conservation'. We worked hard to prepare for this day. We wanted to speak to the new generations, but above all, we wanted to listen to them. We wanted to create a different memory of this day. We told the story of our conquered rights and tried (perhaps a little presumptuously) to instil hope that we could continue to defend them and why not, increase them, improve them. The teacher, who had been sceptical of us and the children all day, finally took 'the talking stick'. She concluded by saying that, if she had gone back, she would have done like Angela, who moved us today with her story of fighting against those who wanted to convince her to go back home, to be a mother, instead of studying and getting involved in this story of nature conservation.

8 March 2023, Ouesso
This year is different. It is the third. This year I was invited, I was dressed, and so I peeked, I stole pics and stories, I listened, I lived with.
People got prepared at least three weeks in advance. If you need a crease in your trousers, forget it, because all the tailors and seamstresses will already be bent over the pedal pushers. Temporary 'sewing stitches' are born, with women who improvise themselves as seamstresses in order to make some money. This is the case with the stall between my house and office, on which there are usually tomatoes, aubergines, onions and beignets. These days, however, it has had piles of clothes with big 8s and long words about women's rights. No matter the age, everyone must have their pagne. Those who have organised themselves on time wear it from the morning, those who are late, the important thing is that they have it from sunset onwards, when the party starts.
In these three years, I have learnt from the women I met that it is not true that it is only 8 March that women in Ouesso are free to go out, leave their husbands at home with their children and have fun. It is that on 8 March all this is recognised, it is accepted, with general consensus in short. 8 March is just a celebration.
This year, I picked up a few sentences between beer and heels stuck in long dresses:

"During the year we do more or less what we do today, but men are not as happy as today." A woman said.

"What rights? Nothing will ever change in this country anyway, so we at least celebrate today." Another replied about rights.

"What has to change? Maman Daniela, look, if something really changes for us, then it's complicated for them, mais jamais..." while laughing with pleasure.


31 gen 2024

La prima volta al cinema

ENGLIGH BELOW 

“Mi manca questo modo di vivere il cinema” finisce così il messaggio di E. che mi arriva a seguito del mio racconto di “una prima volta” vissuta in Congo, anche dopo due anni e mezzo. Sono andata al cinema, ho visto un docu-film che si chiama “le spectre de Boko Haram”. Alla fine ci vado da sola, nessuno è interessato.

Arrivo con un minuto di anticipo, ma “la sala non è ancora pronta” mi dice il tipo all’entrata. Sono all’IFC, l’Istituto Francese del Congo. Niente a che fare con l’IF Madagascar, molto più ambizioso e con un’offerta oltre misura rispetto a qui: documentari su Peter Brook, concerti di musiche di Monteverdi, festival di corti e il grande Beppe Voltarelli, dove arrivai in groppa ad una moto di uno che si chiamava Antonio e che mi salvò dal traffico di Tana.

Qui è tutto più misurato, semplice. Nella sala le poltroncine sono in realtà sedie da congresso in plastica e lo schermo un grande lenzuolo, ma ben tirato. Il film inizia con due bambini che parlano la lingua locale del nord del Camerun. Dopo essersi accorti di non aver attivato i sottotitoli, fanno ripartire il film. In sala c’erano per la maggior parte africani congolesi, west africani e qualche espatriato occidentale.

Il film parla della vita quotidiana di un villaggio controllato da BH, raccontato attraverso la storia di due fratelli deportati in questo villaggio e desiderosi di tornare a casa.

L’orario di inizio è solo indicativo per il pubblico. La gente entra in qualunque momento e alcuni escono per rispondere a dei nokia 2030 che suonano con le suonerie dei primi anni del 2000. Accanto a me ci sono due omini. Uno ha anche molti capelli bianchi, il che denota una età parecchio avanzata, vista la rarità di questo tratto nel popolo africano. Accanto il suo amico dai lineamenti indianeggianti, anche lui di una certa età. I due non esitano a commentare le scene del film durante la sua intera durata.

Il documentario è molto ironico, a tratti esilarante nella scena dei fratelli che si testano sulle capacità matematiche.

Non sapevo che BH controllasse il nord del Camerun, inoltre la lingua locale non ha niente a che fare con il Lingala, però l’accento è lui, quello di questa Africa Centrale ormai inconfondibile pieno di d’abord, seulement et vraiment.

Quando le luci della sala sono ancora spente e i titoli scorrono, c’è il tipo che animerà la discussione che ha già cominciato a presentarsi. Il ghiaccio si rompe subito. L’occidentale fa la sua domanda intellettuale, tutti gli altri invece insistono sulla comprensione della trama del film “Come mai i due bambini alla fine non sono più al villaggio?” “Perché ci fate vedere solo la vita del villaggio, mi aspettavo di vedere come agisce BH” “Come si chiamava la mamma del bambino?” 
Gli omini anziani commentano la dolcezza del piccolo che “voleva sapere il colore dei capelli di sua madre che BH aveva ucciso”, se qualcuno non lo avesse capito.

La ragazza sulla porta, che è nell’organizzazione di questa serie di documentari, ci dice che la voce dei bambini è importante per capire cosa sia una guerra o essere sotto occupazione. Ci racconta che lei la guerra del 1997 se la ricorda, era bambina quando suo padre, mentre camminavano le disse di correre e “plonger”. Lei quel "immergetevi” dice di non averlo mai capito, ma che corse e corse e corse e sentì per gli anni a venire l’istinto di correre, quando era per strada tra la folla. Ce lo racconta talmente bene, senza enfasi né retorica, che per qualche lunghissimo secondo restiamo tutti in silenzio...silenzio rotto dall’omino dai capelli bianchi con un “c’est bon? On peut partir?”
Quel “beh?” che a noi italiani serve per annunciare che è il momento di andare.

Lascio qui le coordinate di questo docu-film che vale la pena di vedere. Non fosse altro per rispondere alle domande degli omini.

 


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"I miss this way of experiencing cinema" thus ends E.'s message to me, following my account of a-first-time-experienced in Congo, even two and a half years. I went to the cinema, I saw a docu-film called 'le spectre de Boko Haram'. 
In the end I go alone, no one is interested.

I arrive a minute early, but 'the theatre is not ready yet' the guy at the entrance tells me. I am at the IFC, the French Institute of the Congo. Nothing to do with the IF Madagascar, which is much more ambitious and has an oversized offer than here: documentaries on Peter Brook, concerts of music by Monteverdi, festivals of short films and the great Beppe Voltarelli, where I arrived on the back of a motorbike belonging to someone called Antonio and who saved me from the traffic in Tana.

Here everything is more measured, simple. In the hall the armchairs are actually plastic conference chairs and the screen a large sheet, but tightly drawn. The film begins with two children speaking the local language of northern Cameroon. After realising they had not activated the subtitles, they restart the film. In the hall were mostly Congolese Africans, West Africans and a few Western expatriates.

The film is about daily life in a village controlled by BH, told through the story of two brothers deported to this village and longing to return home.

The start time is only an indication for the audience. People come in at any time and some leave to answer nokia 2030s ringing with ringtones from the early 2000s. Next to me are two little men. One also has a lot of white hair, which denotes a rather advanced age, given the rarity of this trait in African people. Next to him is his friend with Indian features, also of a certain age. The two do not hesitate to comment on scenes in the film throughout.

The documentary is very ironic, at times hilarious in the scene of the brothers testing each other's mathematical skills.

I did not know that BH controlled the north of Cameroon, moreover the local language has nothing to do with Lingala, but the accent is him, that of this Central Africa now unmistakable full of d'abord, seulement et vraiment.

When the hall lights are still off and the titles are flowing, there is the guy who will animate the discussion who has already begun to introduce himself. The ice is immediately broken. The westerner asks his intellectual question, everyone else instead insists on understanding the plot of the film "how come the two children are no longer in the village at the end?" "why do you only show us village life, I was expecting to see how BH acts" "what was the name of the child's mother?" The old men comment on the sweetness of the little one who "wanted to know the colour of his mother's hair that BH had killed", in case anyone missed it.

The girl at the door, who is in the organisation of this documentary series, tells us that children's voices are important in understanding what a war is or being under occupation. She tells us that she remembers the war of 1997, she was a child when her father, while walking, told her to run and "plonger". She says she never understood that diving, but that she ran and ran and ran and felt for years to come the instinct to run, when she was on the street in the crowd. She tells us so well, without emphasis or rhetoric, that for a few very long seconds we all remain silent...silence then broken by the old white-haired man with a "c'est bon? On peut partir?" That "well?" that we use to announce that it is time to go.

I leave the coordinates of this docu-film that is well worth seeing. If only to answer the old men's questions.

13 dic 2023

Tra le onde dell'oceano

All’inizio di un viaggio o percorso è tutto una scoperta, poi ti abitui e diventa tutto un po’ un’abitudine. Quando poi sta per finire, l’attenzione risale e ci si concentra un po’ di più per non perdere i dettagli.

Martedi 31 ottobre 2023: Brazzaville - Ouesso
Anche quello di oggi sarà un viaggio speciale, con qualche scoperta in più, come ogni volta su questa strada. Sto tornando a Ouesso. All’andata, 10 giorni fa, ho visto paesaggi e luci bellissime in cui non mi ero mai imbattuta. Oggi invece è grigio e la nebbia si poggia sui pochi alberi di Kintele, a pochi km da Brazzaville.
La regione del Pool

Come sempre ho la musica alle orecchie. L’algoritmo ha scelto Generale di De Gregori. Oggi sono seduta dietro. A sedere al posto davanti c’è le CTP (il Consigliere Tecnico Principale), un congolese di Brazzaville che vive a Kabo dove si smazza tutti i progetti, dalla lotta al bracconaggio allo sviluppo comunitario. Mi piace molto. E’ tra le persone che mi hanno insegnato a essere paziente e tollerante.

Accanto a me ho un tipo in missione breve qui, non so altro di lui. Lo chiameremo P. Non capisco neanche se sia inglese o americano. Non parla. E’ da ieri sera alla case che lo vedo, ma a stento ha detto bonjour. Ho imparato a non insistere più e poi ieri io ero eccezionalmente silenziosa. Accanto a  P. c’è An, che dorme già.
Oggi alla guida c'è Vin e abbiamo già fatto tutti i nostri riti: ci siamo fermati a pain du sucre per le brioche, ripassato le parole Italiane che conosce e dopo Kintele - indicando a destra e a sinistra della strada - si è lamentato di come si possa comprare casa lì sotto la strada, vicino al fiume su un terreno fatto di sabbia « ça va tout partir à la prèmière pluie! ». Lo dice ogni volta.
Nell’altra macchina invece c’è Lé, con cui non parleremo e rideremo come ogni volta per tutto il viaggio per poi addormentarmi per sfinimento a pochi Km dall'arrivo a Oyo, quando cambierò macchina e lui rientrerà a Ouesso. Mi va bene essere con Vin oggi, con lui potrò prendere delle pause di silenzio.

L’algoritmo passa a How do I say goodbye di Dean Lewis. Come si dice arrivederci a qualcuno che in realtà non rivedrai mai più? Casca a pennello e sono costretta a schiacciarmi al finestrino e guardare fuori per pensare alla risposta a questa domanda.

Pioviggina e le spalle mi bruciano un po’, devo aver esagerato al sole nel weekend che mi sono concessa a Pointe Noire qualche giorno fa. Mi piace Pointe Noire e quando posso faccio una fuga proprio lì,  dove c'è l’oceano. Una pausa, dopo i giorni faticosi a Brazzaville di lavoro intenso. A Brazzaville in questi giorni si sta svilgendo il summit dei tre ba1cini. E la prossima settimana a Ouesso sarà ancora più intensa.
E così quando Mag mi dice che avrebbe fatto il week end dei morti a Pointe Noire, le ho annunciato che non sarebbe stata da sola e che almeno sabato e domenica sarei andata con lei. 
“Deal!” mi dice.
Corro a comprare il biglietto dagli indiani dell'agenzia in città. Non c’è ovviamente posto in economic col primo volo di domani, così per la prima volta in vita mia ho un biglietto di business class.

Sabato 28 ottobre: Pointe Noire
La business class alla fine consiste in un succo di mango. Intorno a me gente in cravatta e camice in wax su corpi di Bantu forti e fieri. Io in pantaloni da campo e t-shirt, al gate sono quasi stata respinta al gate.

Pointe Noire ha un odore speciale, un misto tra smog e salsedine che ti assale subito. Propongo a Mag di fermarci a casa Papaya prima di andare al nostro lodge. Casa Papaya è un bar della « Cote sauvage » che avevo frequentato durante la mia prima volta a Pointe Noire. Ci passiamo 3 ore e due birre per uno, Bella Ciao in versione elettronica che esce da una cassa sulla spiaggia ed è già pace, relax, pensieri positivi e necessari. C'è tanta fatica che affolla la mia testa in questi mesi, soprattutto da quando abbiamo aggiunto ancora una guerra in questo mondo folle e c'è la sensazione che, con grande facilità, ormai tutto possa facilmente essere spazzato via in un soffio.

Casa Papaya
Il nostro lodge è in un villaggio a 30 minuti a sud dalla città. Un paradiso inatteso davanti all’oceano. Il taxi men si chiama Léo, anche lui.
Riconosco i murales per strada, ho già fatto quel tragitto ed è la parte che preferisco a Pointe Noire. Ci si allontana dalla città e la zona non è meta di seconde case dei numerosi espatriati residenti, per lo più imprenditori, petrolieri, costruttori. L’oceano qui è troppo aperto e le onde sono potenti per questa gente, che invece va verso il nord della città.

Domenica 29 ottobre: Pointe Noire
Sono proprio quelle onde che oggi ho registrato in un vocale di 10 minuti destinato a Silvia. Un mese prima aveva risposto alla mia chiamata dicendo che se avevo voglia potevo scriverle, che era un momento di « ritiro » e che non avrebbe risposto al telefono. Ho aspettato il momento giusto, quello che pensiamo sia tale, nella lotta contro il tempo e le vite frenetiche che conduciamo, quel momento in cui metti insieme i pensieri e li traduci in parole. Così, non le avevo ancora mai scritto fino a quando non mi sono ritrovata da sola, lungo l'oceano con il rumore delle onde. Mag nel frattempo è sotto un ombrellone in piscina, per difendere la sua pelle chiara.
Mentre registro un ragazzo si avvicina e mi chiede se può sedersi con me e farmi compagnia. E' molto probabile che sia quel tipo di compagnia che i bianchi pagano per noia, potere e altre manifestazioni aberranti. Gli faccio segno di no. Si siede lo stesso a 50 mt da me e resta lì sotto il sole cocente.
Nel vocale le racconto un po’ di me, di questi giorni di ora qui in Congo, della decisione di tornare in Italia nel 2024 e dell’esperienza con i bambini dell’aikido. Silvia è stata une delle prime persone con cui avevo fatto un percorso di teatro. Avevo 19 anni e venivo dal sud Italia, totalmente ignara che si potesse fare un certo tipo di lavoro fisico e che questo si potesse chiamare teatro. Lavorammo sull’Angelo sterminatore di Bunuel con lei e Nené e pochi tra noi avevano aspirazioni di diventare attore o attrice. Tuttavia uscimmo tutti da quel percorso un po’ diversi da come ci eravamo entrati. Nacquero delle amicizie e l’interesse per il teatro continuò per molti di noi. Per me lei era una donna nuova, di una bellezza e un fascino esteriori e interiori con cui non mi ero mai confrontata prima. Quando chiudo il messaggio le dico che spero che stia vivendo con tranquillità il suo momento di ritiro e di sofferenza.

Con Mag ci incontriamo al bar per la pausa pranzo, prendo solo da bere, la colazione del mattino sarebbe bastata fino a sera.
Parliamo guardando l’oceano dall’alto dalla paillotte del Lodge. Nel pomeriggio ci dividiamo di nuovo. Io torno in spiaggia e Mag va in camera per la siesta, la piscina adesso è invasa da un matrimonio in cui tutti gli invitati sono vestiti di bianco. Li chiameremo « la secte des blancs ».
Con Mag mi trovo bene, è svizzera ma non troppo, appassionata di tante cose compresa l’Italia di cui conosce la lingua e quando la parla la sua voce si trasforma. Mi piace ascoltarla, mi piace come costruisce un discorso, i termini che usa e il fatto che parli per esempi e per me diventa tutto molto chiaro. Ogni volta sono scambi in cui si va in profondità, anche a rischio di turbarsi emotivamente. Che poi è il bello di essere espatriati: un po' quella cosa che chiamiamo alchimia.

Quando torno in spiaggia il mare è un po’ più rinforzato e sto attenta con le onde che possono travolgere. L’Atlantico è decisamente più aggressivo dell’Indiano.

Martedi 31 ottobre: Brazzaville - Ouesso
Nel frattempo con la macchina arriviamo a Oyo. Stop. Kiss. Pranzo dall'amico del montone e si riparte, P. ce lo stavamo scordando, per la cronaca. Le conseguenze del suo silenzio.

8 ottobre 2013: Pontedera
"Vediamo cosa diventa" mi disse Silvia mentre si arrotolava la sigaretta, fuori dalla camera ardente allestita in teatro per la sua gemella Luisa. C'era una foto di Luisa mentre si specchiava nel camerino del teatro. Di una bellezza esplosiva, diversamente da quella di Silvia sempre nella sua tipica espressione, profondamente presente a tutto e dalla gestualità pulita e posata.
Imparai da Silvia anche in quell’occasione, imparai che le cose vale la pena viverle, anche se dolorose e fuori dal nostro controllo, come il distacco, la morte. 
Avevamo lavorato sul tema durante un laboratorio sul Re Lear. Celebravamo la sua morte. Io scelsi un personaggio maschile, il duca di Kent. Fu una necessità, dovevamo ricordare l'immagine del distacco da una persona cara e io pensai a mio padre davanti al letto di morte di sua madre. In quella Silvia mi disse “Daniela, ricordati che Kent ha un sesso”. 
Silvia Pasello - Pisa, 1997
Negli anni successivi alla morte di Luisa, imparai da Silvia che si può vivere senza un pezzo di sé. « Le gemelle Pasello » le chiamavano così negli anni d’oro e oscuri del teatro, che non hanno mai smesso di fare forse per intima necessità, oltre che passione e amore.

Martedi 31 ottobre: Brazzaville - Ouesso
Le nuvole oggi sulla strada per Ouesso si posano basse attraverso i kilometri del nulla della regione del Pool del Congo. Sembrano fumo che sale dal verde delle colline verdi.
Sempre con la testa schiacciata verso il finestrino cerco un difficile controllo delle lacrime che scorrono impetuose a causa di quella combinazione musica/pensiero che attiva il sistema limbico e che la ragione non può bloccare. E deve essere proprio quel dolore di cui mi parlava Silvia, a cui abbandonarsi e da cui lasciarsi attraversare.
Silvia aveva "le sue frasi" che usava per riportarci verso azioni teatrali che potessero essere credibili al pubblico. 
Una di quelle fu il « se devi cadere, cadi » che disse a Mar, che provava a cadere dalla sedia, ma senza ancora aver trovato un buon motivo nella sua azione. Eravamo tutti affascinati dal suo modo di parlare, muoversi ma soprattutto insegnare. Silvia, bella, presente, forte, con lo sguardo sempre ad altezza occhi. Adoravo quel taglio di capelli corti. Li tagliai anche io. 
Ho ben chiaro in mente il momento in cui scelsi di seguirla per costruire il mio percorso di crescita. Io non volevo fare l’attrice, volevo continuare a essere scienziata, la Biologia mi affascinava e in particolare mi appassionava lo studio del fenomeno delle cose. E lei era la persona giusta per quell'esercizio di comprensione di cosa c'è dietro le cose e i compoprtamenti, nella fattispecie tutto il lavoro di un attore, prima di salire sulla scena davanti a un pubblico. Non ho mai smesso di fare quell'esercizio di ricerca e comprensione, anche quando ci siamo separate. Aveva proprio in-segnato. « Ci siamo scelte » mi disse una volta. Ed era così. E la sentivo un po’ come una responsabilità.

Domenica 29 ottobre: Pointe Noire
Dalla spiaggia vengo via prima del tramonto, per ripetere l'esperienza della birra con Mag al tramonto dalla paillotte del lodge. Ma il tramonto lo perdiamo, come perdiamo noi stesse nei mille discorsi di questo weekend che per me sta finendo. L'indomani il mio aereo è previsto per le 7h30. Il gestore del Lodge mi assicura che alle 5h30 avrei avuto un autista per l'aeroporto. Mi fido.

Lunedi 30 ottobre: Pointe Noire/Brazzaville
Il tipo è puntuale, stranamente, ma quando monto in macchina la batteria è a terra. Sbalordito prova a spingere con degli aiutanti, ma è un grande pickup e il terreno è sabbioso. C’è un altro pickup lì accanto, ma quando trafelato prova ad accenderlo anche quello è con la batteria a terra. Sono le 6 e sono ancora lì. Chiedo un taxi, ma il tipo non demorde, vuole quei 10.000 franchi e io glieli darei, ma non ci sono le condizioni. La decisione la prendo quando vedo che per disperazione usa i cavi per caricare una delle due batterie scariche da una delle due batterie scariche. Un po’ come col ragazzo in spiaggia dico con convinzione che vorrei un taxi per l’aeroporto. Tra i tre presenti ce n'è uno vestito di tutto punto e senza scarpe. E' lui che abbozza l’idea che qualcuno mi porti en vélo in paese per prendere un taxi. Prima di urlare « Quale vélo?? » con tutta la Puglia che è in me, mi ricordo che vélo qui è moto e bicicletta è vélo pédale.

La moto è un po’ più grande di uno scooter. Non ho scelta. Monto e partiamo. No casco, no rispetto di limiti, evidentemente inesistenti su strada prevalentemente sabbiosa, con ruota posteriore che talvolta sfugge al controllo. La visione di me con gamba rotta e rimpatrio si delinea. Poi finalmente l’asfalto, poi il taxi. Sono le 6:15 e partiamo. Dopo 50mt il tassista a cui era stato raccomandato di andare dritto in aeroporto si ferma da un Gheddafi per fare rifornimento. Per chi non lo sapesse, si chiamano così i rifornitori abusivi di carburante venduto in bottiglie di Pastis. Il tipo chiede 15 litri, che vuol dire una infinità di bottiglie. Alle 6:20 il Gheddafi non ha il resto, faccio notare al taxi men che il mio aereo è alle 7:30. Sgrana gli occhi, lascia il resto al petit, come chiamano qui il garzone e corre a tutta randa verso l’aeroporto, facendo slalom tra camion e macchine del primo risveglio cittadino. Arrivo in aeroporto alle 6:40 e il check-in è ancora aperto, grazie alla quantità spropositata di bagagli che la gente trasporta per se e per altri intermediari che si infilano a metà fila.
Come annullare la calma e il relax di un weekend improvvisato, penso. Ma almeno l'aereo non è perso. Rientro in economic e coca cola al posto del succo di mango.

Quando arrivo a Brazzaville, ho giusto il tempo di lasciare la roba alla case e gettarmi nelle riunioni del lunedì. C’è ancora tantissima gente in missione che occupa la sala meeting. Sono devastata, ho dormito 4 ore, ma ho respirato oceano e terra di sud, che mi fa sempre bene.
Rientro per pranzo alla case. Ros ha come al solito appoggiato la parrucca sull’asse da stiro mentre pulisce parlando ininterrottamente al telefono. Mangio il mio avocado con pomodoro e mi stendo 5 minuti sul grande divano della sala per una micro pausa. Guardo il telefono. Ho ricevuto un messaggio dal numero di Silvia in risposta al mio vocale che risulta non ascoltato, tuttavia. Il messaggio inizia con un “cari e care”, poi senza continuare a leggere vedo che mi hanno scritto Pao, Ele, Eli e Mic che mi chiede di chiamarlo e piano piano il suono della risacca dell'oceano risuona nella mia testa. 
“Silvia non c’è più, è volata via...” dice il messaggio.
Mi congelo, come è prevedibile.
Rileggo il messaggio.
“Silvia non c’è più, è volata via...”
“Oppure flotta tra le onde dell’Atlantico di Pointe Noire...” mi dico.

Martedi 31 ottobre: Brazzaville - Ouesso
Il lungo viaggio tra Brazzaville e Ouesso, appiccicata al finestrino, mentre musica e pensiero mi fanno piangere, mi fa bene, nonostante l'imbarazzo che qualcuno possa accorgersi che Daniela-la-forte sia crollata. In questo viaggio ricordo, immagino, ricostruisco scene vissute e di fantasia.
Mi convinco che la cosa bella sarà scoprire un giorno che la sua morte avrà rappresentato ancora un altro momento speciale che Silvia ci avrà regalato. Sarà un modo di mettere in atto quel vivere senza un pezzo, come aveva fatto lei.
Ma è presto. Per ora so che non mancherai e basta, molto di più.

Plage de Djeno - Pointe Noire


16 ott 2023

Quale sorpresa migliore!

ENGLISH BELOW

Rientrata dalle ferie estive pianifico 10 giorni a Brazzaville, ho qualche attività da fare. Sarà anche l'occasione di stare con gli amici e i colleghi della capitale, fare aikido e rientrare così gradualmente nella vita di qui e poi procedere verso il nord, verso Ouesso.

Poiché è un venerdì, chiamo il maestro di aikido del dojo che sta a 3 minuti dall’ufficio. Maître Jac mi dice che non ci sarà lezione perché a cominciare dal pomeriggio ci sarà uno stage al dojo del parco zoologico, (che poi è l'altro dojo che frequento). Ci diamo appuntamento lì e, contenta penso che il mio rientro nel paese, nonché il weekend, abbiano preso la piega migliore. Giro l'angolo della strada e incontro Senpai Flu, gli indico il telefono e gli mostro che lo stavo chiamando proprio in quel momento. Flu  è stata la mia porta di entrata all’aikido di qui. Intuisco che lui non verrà, adduce ragioni confuse (mai diretti qui, eh!) Sospetto i soliti problemi politici tra club, che poi è il motivo per il quale adesso a Ouesso non pratico più con gli adulti, ma insegno a ragazzini e bambini.

Mi fiondo al dojo alle 18.00. Il Maestro sta facendo gli esami ed è pieno di piccoli aikidoka che hanno appena ricevuto la cintura gialla. In particolare c'è una aikidoka di taglia minuscola, la cintura fa tre giri intorno alla sua vita, e ne è così fiera…

Allo stage siamo una quarantina e quasi perfettamente distribuiti tra cinture nere e bianche. Qui in Congo si usa che al saluto ci si metta in ordine di grado e che il più alto in grado dica delle cose al Maestro che io non riesco proprio a memorizzare. Per fortuna capito nel mezzo. Qui il riscaldamento csi fa in cerchio e generalmente è ricco di flessioni e addominali. Oggi invece il maestro inizia con un lungo e dolce stretching, in una sequenza logica ed estremamente piacevole per il mio corpo un po’ fuori allenamento.

Il maestro ha una bella faccia, si chiama qualcosa tipo Argille (cosa possibilissima nel panorama dei nomi congolesi fantasmagorici, tipo Jadore, çasuffit, Dieumerci e tanto altro che ho segnato in un file dedicato). Anche sulle tecniche entriamo in modo dolce, facendole prima senza cadute (quello che chiamano  l’éducatif) e poi passiamo alle techniques avec la chutte et les clés (cadute e chiusure).

Ammiro l'attenzione fortissima del maestro verso le cinture bianche, che accoppia alle nere dopo ogni spiegazione. Ci corregge senza mai essere diretto, ma usando metafore o facendo battute (tipico di qui e principale causa di incomprensione nella mia vita quotidiana). Ma quello che più m’incasina è che loro chiamano taesabaki, quello che per il resto del mondo è irimi-tenkan, ma ora lo so, quindi ok. 

(Sì, è un post un po' nerd...)
Un'altra grande vera differenza con i dojo ortodossi è che qui è ammesso arrivare in ritardo. Il maestro non ti rifiuterà. Ci sta anche questo. Un giorno mentre discutevo sulla puntualità, un congolese mi ha detto «Daniela, vous avez le montre, nous avons les temps » (voi avete l'orologio, noi abbiamo il tempo). E mi ha spiazzato.

Tra i praticanti c’è di tutto: alti, bassi pesi minimi e pesi massimi. Deve essere arrivato uno stock di uniformi da qualche paese arabo, molti di loro hanno keikogi con bandiere di colori di Giordania, Siria e Palestina. C'è chi pratica in maniera molto fluida e chi invece è un tronco d'albero. Chi va lentamente, chi si muove come un forsennato. C'è chi mi evita: la bianca con la cintura nera che ti corregge, non è una condizione che si può accettare in pochi secondi di pratica. E c'è chi invece "mi cerca" per praticare e sono soprattutto le (poche) ragazzine. Poi ci sono gli scettici, quelli costretti dal maestro a praticare con me, che preoccupati di farmi male fanno finta di attaccare, fanno piano, e quando si beccano un colpo (io che non faccio finta per niente) conquisto la loro fiducia. 

Tre ore di allenamento al giorno per tre giorni. Si suda da matti, non ci sono pause, non si beve, non si piscia. Ma questo un po' ovunque nel mondo aikidoka.

Noto in particolare due montagne sul tatami: una cintura nera e una arancione. La nera è lo Steven Seagal del Congo. La grande pancia nasconde la cintura a cui è appesa miracolosamente l’hakama. È magnifico vederlo lavorare con i piccoli, che cadono affidandosi al loro essere di caucciu e al rispetto che qui ti insegnano per la gerarchia. Fare e non discutere. Anche Montagna-cintura-arancione cade, ma lui "cade grande" come si dice in gergo e fa un casino della Madonna, perché qui « rumore forte è figo ».
L’entusiasmo sale e le tecniche si complicano di giorno in giorno e ogni mattina sono sempre più rotta e contenta.
L’ultimo giorno viene anche Pat, la mia amica 3 DAN con cui mi alleno di solito qui a Brazzaville. Pat, grande stazza, tanta morbidezza.

Le donne dello stage
E' domenica e il maestro ci invita dopo lo stage a condividere una delle cose a più alto valore sociale qui, le jus. Con jus si indica qualunque tipo di bevanda (alcolica e analcolica). Condividere o offrire un jus determina la chiusura di una giornata, di un evento, di un attività. Per le comunità con cui lavoro ha più valore ricevere un jus a fine attività, che un qualunque gadget di progetto, come una maglietta.
Il bar dove andiamo è di uno del gruppo di aikidoka. Ci vado con Pat e le altre due uniche donne dello stage. Il bar in realtà è il salone di una parrucchiera che ha un grande frigo con i jus. Ci installiamo sotto a un grande safoutier. Fa caldissimo, siamo disidratati, chiediamo tutti dell’acqua per cominciare, tranne Steven Seagal che ha due birre Beaufort ghiacciate sul tavolino. Le beve alla goccia in non più di 40 secondi; le bottiglie scompaiono nelle sue grandi mani. Al mignolo ha un grande anello d’oro, con una testa di leone in rilievo. Io chiacchiero con Pat, ma ho un occhio su di lui. Resisto a fargli una foto, troppo presto. 
Arachidi in plastica
L’omino delle arachidi passa, come in ogni punto-bar che si rispetti qui. Le trasporta nelle bacinelle di plastica, quelle dei panni per intenderci e le vende a bicchierate. Ne compriamo una vagonata e cominciamo a sgranocchiare. Qui le arachidi le fanno bollite e sono buonissime. C'è della fame seria, in poco tempo creiamo un tappeto di bucce sotto i nostri piedi, mentre si chiacchiera di tutto. 
Molte cose non le capisco, perché dette in lingala, ma non mi sento esclusa. Mentre parlo con Maitre Jac, a qualche sedia da me, mi accorgo che Steven Seagal sta aggeggiando con una pistola giocattolo. Dice cose che non capisco, la gira, fa finta di caricarla, ci soffia sulla canna. Il suo anello è in bella vista. Viene fuori che lavoro vicino al Parco Nouabale Ndoki nel nord del Paese e mi chiede se ci sono i gorilla. Dico di sì e lui dice che vorrebbe incontrarne uno per fronteggiarlo. 




Poi risolleva la pistola e dichiara a tutti che oggi la bevuta è gratis. Nessuno reagisce. Neanche il Maestro. Devono essere abituati. E io penso che se vedesse un gorilla davvero si cacherebbe nei pantaloni.
Continuiamo a sgranocchiare le arachidi, mentre a causa della rotazione terrestre, perdiamo l’ombra del nostro safoutier. Migriamo lentamente verso il muro per evitare quel sole allo zenit, tipico dell'equatore.
Le birre finalmente escono dal salone del coiffeur e arrivano belle ghiacciate.

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Back from my summer holidays I plan 10 days in Brazzaville, I have some activities to do. It will also be an opportunity to be with friends and colleagues in the capital, practice aikido and thus gradually re-enter life here and then head north to Ouesso.

Since it is a Friday, I call the aikido master of the dojo that is three minutes away from the office. Maître Jac tells me that there will be no class because starting in the afternoon there will be a workshop at the dojo closed to the zoo, (which is the other dojo I usually go for practice). We make an appointment there and, happy, I think that my return to the country, as well as the weekend, have taken a turn for the better! I turn the corner of the street and meet Senpai Flu, I point to his phone and I show him that I was calling him just then! Flu was my gateway to aikido here. I guess he's not coming, giving confused reasons (never headed here, eh!) I suspect the usual political problems between clubs, which is why now in Ouesso I no longer practise with adults, but teach kids and children.

I rush to the dojo at 6pm. The sensei is taking his exams and it's full of little aikidoka who have just received their yellow belts. In particular there is one tiny aikidoka, the belt goes three laps around her waist, and she is so proud of it....

At the workshop we are about forty and almost perfectly distributed between black and white belts. 
Here in Congo it is customary that at the "greeting" we stand in order of rank and that the highest in rank says things to the sensei which I really cannot memorise. Luckily I am in the middle. Here the warm-up is done in a circle and is generally full of push-ups and abdominals. Today, however, the Sensei starts with a long, gentle stretch, in a sequence that is logical and extremely pleasant for my somewhat out-of-training body.

The sensei has a nice face, his name is something like Argille ("clay", which is very possible in the panorama of phantasmagorical Congolese names, such as Jadore, çasuffit, Dieumerci and many others that I have marked in a dedicated file). Even on the techniques we enter in a gentle way, doing them first without falls (what they call l'éducatif) and then move on to techniques avec la chutte et les clés (falls and keys).
I admire the sensei's strong focus on the white belts, which he pairs with the black belts after each explanation. He corrects us without ever being direct, but using metaphors or making jokes (typical here and the main cause of misunderstanding in my daily life). But what messes me up the most is that they call taesabaki, what to the rest of the world is irimi-tenkan, but now I know, so OK.

(Yes, it's a bit of a nerdy post...)

Another big real difference with orthodox dojos is that here you are allowed to arrive late. The sensei will not refuse you. That's part of Congo as well. One day I was discussing punctuality with a Congolese man who replied 'Daniela, vous avez le montre, nous avons les temps' (you have the watch, we have the time). And I was taken aback.

Amongst the practitioners there is everything: little and tall people, low and heavyweights ones. A stock of uniforms must have arrived from some Arab country, many of them have keikogi with flags in the colours of Jordan, Syria and Palestine. Some practice very fluidly and some are tree trunks. Some go slowly, some move very fast. There are those who avoid me: the white girl with the black belt correcting you is not a condition that you can accept in a few seconds! And there are those who 'seek me out' to practice and they are mainly the (few) young girls. Then there are the sceptics, those forced by the sensei to practise with me, who, worried about hurting me. They just pretend to "attack", they take it easy, but when they get a hit by me (not pretending at all) I eventually win their trust.

Three hours of training a day for three days. We sweat like crazy, there are no breaks, no drinking, no breaks for pissing. But that's just about everywhere in the aikidoka world.

I notice in particular two "Mountains" on the tatami: a black belt and an orange belt. The black one is the Steven Seagal of the Congo. The big belly hides the belt from which the hakama miraculously hangs. It is magnificent to see him working with the little students, who fall relying on being made of rubber and the respect they teach you here for hierarchy: just do it and not argue. 
Even Montagna-belt-orange falls, but he 'falls big', as we say in the jargon, and makes it very noisy, because here 'loud noise is cool'.
The enthusiasm rises and the techniques get more complicated by the day, and every morning I feel more and more broken and happy.
On the last day, Pat also joined the workshop. Pat is my 3 DAN friend with whom I usually train here in Brazzaville. Pat: great size, lots of softness.

It's Sunday and the sensei invites us after the stage to share one of the things with the highest social value here: le jus. Jus means any kind of drink (alcoholic and non-alcoholic). Sharing or offering a jus brings closure to a day, an event, an activity. For the communities I work with, it is more valuable to receive a jus at the end of the activity than any project gadget, such as a T-shirt.
The bar we go to belongs to one of the aikidoka group. I go there with Pat and the only other two women from the stage. The bar is actually the salon of a hairdresser who has a big fridge with jus
We set up under a big safoutier. It is very hot, we are dehydrated, we all ask for water to start, except Steven Seagal who has two ice-cold Beaufort beers on the table. He drinks them in no more than 40 seconds; the bottles disappear in his big hands. On his little finger he has a large gold ring with a raised lion's head. I chat with Pat, but I have one eye on him. I resist taking a picture of him, too soon.

The "peanut man" passes by, as in any self-respecting bar here. He carries them in plastic bowls - the kind used for laundry - and sells them measuring the quantity by a glass. We buy a bucketful and start munching. Here they boil the peanuts and they are delicious. 
There is serious hunger, in no time we create a carpet of peelings under our feet, while chatting about everything. Many things I don't understand, because they are said in Lingala, but I don't feel left out. 
As I talk to Maitre Jac - a few chairs away - I notice that Steven Seagal is fidgeting with a toy gun. He says things I don't understand, turns it around, pretends to load it, blows on the barrel. His ring is in plain sight. It turns out that I work near Nouabale Ndoki Park in the north of the country and he asks me if there are gorillas there. I say yes and he says he would like to meet one to confront it.
Then he raises his gun and declares to everyone that today the drink is free. No one reacts. Not even the sensei. They must be used to it. And I think if he saw a gorilla he would really shit his trousers.

We continue munching on peanuts, while due to the earth's rotation, we lose the shadow of our safoutier. We slowly migrate towards the wall to avoid that zenith sun, typical of the equator.
The beers finally leave the coiffeur's salon and arrive nice and cold.